Il bilancio degli antipiastrinici
E’ percezione comune che il rischio associato all’uso di farmaci antipiastrinici sia inferiore a quello di eparine e anticoagulanti orali per i quali la necessità di seguirne nel tempo l’azione anticoagulante sarebbe di per sé indiretta dimostrazione di maggiore pericolosità. Il dosaggio fisso e la non raccomandazione di monitorarne l’azione confermerebbero la sicurezza dei farmaci antipiastrinici. Questo assunto è solo in parte vero. Acido acetilsalicilico e tienopiridine sono farmaci largamente utilizzati nella pratica clinica per la loro documentata efficacia nella prevenzione degli eventi cardio e cerebrovascolari e sono accomunati dall’essere inibitori selettivi e irreversibili dell’attivazione piastrinica. L’acido acetilsalicilico inibisce la ciclossigenasi di tipo 1 presente nelle piastrine, responsabile della sintesi di trombossano.1 La ticlopidina e il clopidogrel legano, inibendolo, uno dei due recettori per l’ADP espressi sulla superficie delle piastrine, il P2Y12. L’irreversibilità d’azione garantisce l’efficacia protratta di questi farmaci.2 La selettività nell’inibire vie di segnale convergenti nel processo di amplificazione, una tappa intermedia nell’attivazione piastrinica, giustifica la cumulabilità dell’effetto inibitorio di acido acetilsalicilico e tienopiridine. Infine, la persistenza di vie di segnale alternative spiega la residua attivabilità piastrinica.
Quando sia necessario ottenere un elevato grado di inibizione piastrinica, come in soggetti candidati a essere sottopsti a un intervento di impianto di stent coronarico, l’associazione di due differenti farmaci antipiastrinici riduce l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori (circa il 30% in meno). Il risultato di studi clinici e di studi di coorte ha tuttavia confermato che tale associazione incrementa il rischio emorragico rispetto a quello osservato con un singolo farmaco (50-100% di eventi in più).2 Il rischio emorragico aumenta ulteriormente quando siano utilizzati farmaci inibitori del recettore del fibrinogeno, abciximab, eptifibatide, tirofiban, in grado di prevenire direttamente l’aggregazione piastrinica.
Emerge il concetto che un elevato grado di inibizione piastrinica sia necessario e clinicamente efficace in condizioni di rischio cardiovascolare elevatissimo e che ciò inevitabilmente comporti un alto rischio emorragico. L’apparente indissolubilità del legame tra efficacia d’azione e rischio emorragico rende difficile immaginare una completa sicurezza anche di nuovi composti ad attività antipiastrinica.
La ticlopidina, nell’ambito delle tienopiridine, è caratterizzata da un’alta tossicità comprendente l’induzione di granulocitopenia.1,2 A ciò si accompagna una minore prevedibilità della farmacocinetica e farmacodinamica trattandosi di un profarmaco da cui derivano differenti metaboliti attivi con differente vita e attività biologica. Derivati tienopiridinici, come il prasugrel, dotati di minore tossicità e di maggiore efficacia nei test di laboratorio conferiscono un maggior rischio per eventi emorragici quando saggiati in studi clinici controllati.
Allo stesso modo nuovi farmaci inibitori non tienopiridinici del recettore per l’ADP, come il ticagrelor, a rapida azione, reversibili e con elevato effetto inibitorio di P2Y12, assieme a una maggiore protezione cardiovascolare determinano anche un maggiore rischio di emorragia non collegata alla procedura quando sono stati saggiati in pazienti sottoposti a rivascolarizzazione coronarica.2
E’ tuttavia possibile ridurre il rischio di sanguinamento tenendo presente che esso dipende in larga misura non solo dall’efficacia dei farmaci ma anche dalla loro selettività d’azione, dalle caratteristiche del paziente e dal contesto clinico nel quale sono utilizzati.
Il sanguinamento, soprattutto gastroenterico, è l’evento avverso più comune osservato con farmaci antipiastrinici (0,4-2,7 per 100 soggetti trattati hanno un rischio di emorragia non fatale in 5 anni).1,3 Nel caso dell’acido acetilsalicilico è stata dimostrata una relazione lineare tra entità della dose ed effetti gastrointestinali avversi, che possono essere ridotti utilizzando dosi di 75-100 mg al giorno. A questi dosaggi non vi sono prove che il rischio di emorragia sia maggiore di quello attribuibile al clopidogrel, essendo limitati gli effetti sistemici. Per dosaggi maggiori di acido acetilsalicilico, soprattutto sopra i 500 mg al giorno, la progressiva inibizione della sintesi prostaglandinica a livello della mucosa gastrointestinale può spiegare il rischio di emorragia gastrointestinale.
Per quanto riguarda le caratteristiche del paziente, vi sono prove che il rischio emorragico cresca parallelamente all’incremento del suo rischio cardiovascolare, determinando una complessiva condizione di fragilità.3 Alcuni semplici parametri, quali sesso femminile, età avanzata, elevati valori di creatinina e la presenza di anemia possono essere predittivi del rischio emorragico in soggetti con sindrome coronarica acuta.4 Una storia di ulcera o un’ulcera peptica attiva sono i principali fattori di rischio per il sanguinamento, indipendentemente dal farmaco antipiastrinico assunto. Recenti raccomandazioni indicano come appropriata in questi casi la somministrazione concomitante di inibitori di pompa protonica, graduando verso il basso la protezione gastrica nei soggetti a minore rischio emorragico.5,6
Un alto rischio emorragico si associa infine agli interventi chirurgici e alle procedure endoscopiche. Quale sia la condotta preferibile in occasione di procedure che espongano chi assume farmaci antipiastrinici a un duplice rischio, trombotico ed emorragico, è argomento di intenso dibattito. In assenza di dati sperimentali che conferiscano un elevato livello di consenso alle raccomandazioni delle società scientifiche, si ritiene che la sospensione dei farmaci antipiastrinici sia giustificata solo quando essi siano stati prescritti in un programma di prevenzione primaria a soggetti cui è attribuibile un basso rischio cardiovascolare. Negli altri casi è raccomandato proseguire il trattamento antipiastrinico nel periodo periprocedurale o posticipare, quando possibile, la procedura nel caso di recente impianto di stent coronarici.7
Più in generale, quando i farmaci antipiastrinici sono somministrati per la prevenzione primaria del rischio cardiovascolare il rapporto tra beneficio e rischio è prevedibilmente basso. Ciò ha posto il problema di identificare quali siano le condizioni cliniche che ne giustifichino la prescrizione.3 In soggetti a rischio cardiovascolare molto elevato, come i pazienti cui è stato da poco impiantato uno stent coronarico, per quanto aumentato il rischio emorragico risulta accettabile in confronto al rischio trombotico derivante dal danno endoteliale. In condizioni di basso rischio cardiovascolare, nessun apprezzabile vantaggio aggiuntivo potrebbe derivare dall’uso di un antipiastrinico quando siano utilizzati altri farmaci, come le statine che, pur offrendo protezione cardiovascolare, non conferiscono alcun rischio emorragico aggiuntivo.4 Allo stato attuale l’indicazione accolta dalle società scientifiche è che solo un rischio cardiovascolare superiore al 10% in 10 anni, in pazienti che non presentino un elevato rischio di sanguinamento, giustifichi la prescrizione di un antipiastrinico in prevenzione primaria.8
I farmaci antipiastrinici conferiscono un rischio di incorrere in eventi emorragici che dipende dall’entità complessiva dell’effetto inibitorio sull’attivazione piastrinica e dalle caratteristiche dei soggetti trattati. La modalità di prevenzione degli eventi avversi deve comunque tenere conto della necessità di protezione cardiovascolare nei soggetti trattati.
- Nat Rev Cardiol 2011;8:592-600. CDI #rrr#
- Thromb Haemost 2011;105:S67-74. CDI #nrr#
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Pietro Minuz Medicina Interna C, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona