Psicofarmaci e rischio di suicidio
Non è facile studiare il legame tra psicofarmaci e condotte autolesive, compreso il suicidio.
Focus Farmacovigilanza analizza queste difficoltà e fornisce alcuni semplici consigli per valutare criticamente i dati e affrontare questo delicato tema.
Negli ultimi anni si è molto discusso, nella letteratura internazionale sulla possibile associazione tra utilizzo di psicofarmaci e rischio di sviluppare ideazione autolesiva o di commettere gesti autolesivi, fino alla morte per suicidio. La letteratura èmolto ricca di studi su questo argomento, centrati soprattutto sui farmaci antidepressivi e sugli antipsicotici ma anche, più recentemente, sui farmaci antiepilettici. Nel 2011 è stata anche pubblicata una rassegna critica della letteratura sull’argomento, che ha analizzato i disegni di studio utilizzati per affrontare questa associazione, e i principali risultati ottenuti.(1) La lettura di tale revisione suscita alcune considerazioni(2) che vengono qui riassunte e che possono essere considerate delle semplici istruzioni per l’uso per chi desideri approfondire l’argomento.
Suicidio, tentato suicidio, ideazione autolesiva
Idealmente gli studi dovrebbero aiutare a capire se l’esposizione a un farmaco, oppure a una classe di farmaci, aumenti la frequenza di suicidio, che è ovviamente l’indicatore di esito più importante. Il suicidio è però un evento raro e spesso gli studi preferiscono utilizzare degli indicatori di esito compositi, che racchiudono sia i suicidi compiuti sia quelli tentati, oltre ai gesti autolesivi e talvolta anche alla semplice ideazione autolesiva.
Negli Stati Uniti, per esempio, la FDA ha portato a termine, alcuni anni fa, un’analisi di tutte le sperimentazioni randomizzate che confrontavano un antidepressivo rispetto al placebo, per capire se i soggetti trattati con antidepressivi avessero compiuto suicidi con frequenza significativamentemaggiore (il testo del lavoro è disponibile online: http://www.fda.gov/ohrms/dockets/ac /06/briefing/2006-4272b1-01-fda.pdf). L’analisi ha incluso centinaia di sperimentazioni e più di 100.000 pazienti, ma il numero totale di suicidi era 8, un numero troppo piccolo per poter compiere un’analisi dei dati sufficientemente potente dal punto di vista statistico. I ricercatori della FDA hanno allora ampliato la definizione di esito, includendo non solo i suicidi compiuti ma anche quelli tentati, i gesti autolesivi senza intenti suicidi, i gesti preparatori di gesti autolesivi, i pensieri di morte e di suicidio. In questo modo il numero degli eventi è aumentato considerevolmente ed è stato possibile compiere un’analisi sofisticata dei dati.
Rimane tuttavia un dubbio: quale grado di certezza abbiamo per ritenere che i pensieri di morte o le idee autolesive o i gesti impulsivamente autolesivi siano direttamente e linearmente correlati alla morte per suicidio? Paradossalmente quasi nessuna certezza. Un altro dubbio è legato al fatto che le idee autolesive sono tali in quanto raccontate dal paziente, ma come possiamo essere certi che esse vengano effettivamente riferite all’esaminatore? E’ possibile infatti che alcune persone abbiano pensieri di morte ma non li rendano espliciti. Questo può sottostimare la frequenza del fenomeno, ma soprattutto è possibile che il raccontare o meno tali idee possa essere correlato ad altre variabili come il sesso o l’età, distorcendo in questo modo eventuali associazioni riconosciute dall’analisi statistica e inducendo a conclusioni erronee.
Suicidio: effetto collaterale dei farmaci o esito della malattia sottostante?
Nello studiare la relazione tra esposizione ai farmaci e rischio di sviluppare un’ideazione autolesiva bisogna considerare che alcune malattie psichiatriche sono esse stesse associate a un aumento del rischio di suicidio. Non bisogna quindi confondere gli studi che si occupano di verificare in che misura i trattamenti farmacologici, migliorando i sintomi della patologia psichiatrica, determinano una diminuzione dell’evento suicidio, rispetto agli studi che si occupano di verificare in che misura i trattamenti farmacologici determinano un aumento dell’evento suicidio, attribuibile in questo caso al trattamento farmacologico stesso (effetto collaterale) e non al decorso di malattia. Un esempio della prima situazione è dato dagli studi che analizzano in che misura l’esposizione ai farmaci antipsicotici nelle popolazioni di individui con schizofrenia determina una riduzione della frequenza delle morti per suicidio e della mortalità in generale. Si è capito che l’utilizzo di antipsicotici in questi casi è protettivo, ossia si associa a una riduzione a lungo termine delle morti per suicidio e il dibattito attualmente verte su eventuali differenze tra singoli antipsicotici rispetto a questo parametro di esito.(3) Differente è il discorso sugli antidepressivi nei soggetti con depressione, dove si ipotizza un aumento del rischio di suicidio legato ai farmaci antidepressivi. In questo caso, paradossalmente, il dibattito non verte su quale antidepressivo sia tanto efficace da determinare una riduzione del rischio di suicidio insito nella malattia, bensì su quale antidepressivo aumenti di meno l’ideazione autolesiva intesa come effetto avverso secondario al trattamento stesso.
Le metanalisi delle sperimentazioni randomizzate
Le singole sperimentazioni che randomizzano i soggetti ad assumere un farmaco oppure il placebo non hanno sufficiente potenza statistica per stabilire se il farmaco attivo aumenti il rischio di morte per suicidio, oppure di pensieri di morte, in quanto si tratta di eventi poco frequenti. Se però anziché considerare singole sperimentazioni si aggregano i dati provenienti da centinaia di sperimentazioni, per esempio tutte quelle condotte sui farmaci antidepressivi, è possibile costituire database più potenti dal punto di vista statistico, che consentono di studiare meglio il fenomeno. Questo è vero con due puntualizzazioni: devono essere incluse tutte le sperimentazioni, non solo quelle pubblicate, altrimenti si rischia di generare informazioni sbagliate; sarebbe meglio analizzare i dati delle sperimentazioni a livello individuale, paziente per paziente, e non limitarsi ad analizzare i dati aggregati sperimentazione per sperimentazione. Si è capito infatti che condurre una metanalisi sui dati disaggregati delle sperimentazioni paziente per paziente consente di studiare l’effetto di variabili che possono modificare la relazione tra farmaco e suicidio, per esempio il sesso o l’età. L’analisi condotta dalla FDA, sopra ricordata, che ha incluso tutte le sperimentazioni randomizzate che confrontavano un antidepressivo rispetto al placebo, è stata in grado di analizzare i dati a livello individuale, e di capire così che la relazione tra esposizione agli antidepressivi e rischio di suicidio è mediata dall’età: negli adolescenti e giovani adulti il rischio è aumentato, diminuisce con l’aumentare dell’età per arrivare a un effetto chiaramente protettivo degli antidepressivi nei soggetti sopra i 65 anni di età. La FDA ha anche condotto un’analisi successiva per studiare la relazione tra esposizione agli antiepilettici e rischio di suicidio (il testo del lavoro è disponibile online: pdf).
Il ruolo di singole sperimentazioni randomizzate
La questione della scarsa potenza di singole sperimentazioni è un problema relativo, non assoluto. Vi sono esempi di singole sperimentazioni che sono state in grado di dimostrare l’effetto positivo di un farmaco rispetto al rischio di suicidio. Nel 2003 è stato portato a termine uno studio che ha confrontato clozapina e olanzapina, due farmaci antipsicotici, in soggetti con schizofrenia.(4) Lo studio ha randomizzato 980 pazienti che sono stati seguiti per due anni. Al termine dello studio la frequenza di tentativi di suicidio era significativamente minore nei soggetti randomizzati alla clozapina.
Il ruolo degli studi ecologici
Negli ultimi dieci anni la letteratura scientifica ha visto la proliferazione di studi descrittivi su questo argomento, chiamati anche studi ecologici. In questi studi si descrive l’andamento nel corso degli anni, a livello di una nazione o di una determinata area geografica, dei tassi di suicidio, e si descrive nello stesso periodo l’andamento delle vendite di farmaci che si ipotizza possano avere un impatto su tali tassi di suicidio, per esempio gli antidepressivi. Si verifica quindi se al crescere delle vendite degli antidepressivi si abbia una riduzione dei tassi di suicidio. E’ chiaro che questo tipo di analisi, interessanti perché studiano le tendenze di fenomeni importanti a livello di popolazione, sono metodologicamente molto deboli, in considerazione del fatto che i tassi di suicidio sono influenzati da molteplici fattori e non solamente dalle vendite di antidepressivi.
Istruzioni per l’uso
Nell’affrontare la letteratura sulla possibile relazione tra esposizione ai farmaci e rischio di sviluppare un’ideazione autolesiva è quindi consigliabile seguire le seguenti istruzioni per l’uso:
- verificare quale indicatore di esito venga effettivamente studiato (suicidio rispetto a idee autolesive);
- verificare quale sia l’ipotesi dello studio (suicidio come effetto collaterale dei farmaci o suicidio come esito della malattia);
- verificare se siano presenti in letteratura metanalisi delle sperimentazioni randomizzate (che includano gli studi non pubblicati, con dati individuali paziente per paziente);
- verificare se siano presenti in letteratura singole sperimentazioni con sufficiente potenza statistica da generare informazioni solide;
- non fidarsi degli studi ecologici descrittivi.
- Drug Saf 2011;34:375-95. CDI #nff#
- Drug Saf 2011;34:397-401. CDI #fff#
- Lancet 2009;374:620-7. CDI #nff#
- Arch Gen Psychiatry 2003;60:82-91. CDI #nff#
Corrado Barbui
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona