Bifosfonati somministrati per via orale ed osteonecrosi
I bifosfonati rappresentano un’importante classe di farmaci utilizzati nel trattamento di patologie metaboliche e oncologiche che coinvolgono l’apparato scheletrico (fratture patologiche, schiacciamenti vertebrali, radioterapia o interventi chirurgici all’osso, ipercalcemia neoplastica). Il loro meccanismo d’azione si basa sulla capacità di inibire il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti. I bifosfonati più comunemente utilizzati in terapia sono: alendronato, risedronato, ibandronato, pamidronato e zoledronato. Mentre i primi tre vengono impiegati nella prevenzione ed il trattamento dell’osteoporosi e nel morbo di Paget, pamidronato e zoledronato svolgono un ruolo nella prevenzione delle complicanze ossee e nel trattamento dell’ipercalcemia severa associata a mieloma multiplo o a metastasi ossee conseguenti a carcinoma mammario o prostatico. Generalmente i bifosfonati sono ben tollerati e non causano effetti collaterali rilevanti; tra i più comuni: diarrea, nausea, dolori addominali, irritazione esofagea e gastrica. Negli ultimi anni diverse segnalazioni hanno tuttavia descritto l’osteonecrosi della mandibola quale effetto avverso potenzialmente grave associato alla somministrazione cronica di tali farmaci. Sebbene nella maggior parte dei casi questo evento avverso si sia verificato in pazienti oncologici che assumevano pamidronato e/o zoledronato per via endovenosa, il numero di segnalazioni relative all’assunzione di alendronato per via orale, nel trattamento dell’osteoporosi, è in continua crescita. Infatti, nonostante l’alendronato venga somministrato a basse dosi ed abbia una scarsa biodisponibilità orale, il suo utilizzo è aumentato nell’ultima decade.
Uno studio retrospettivo ha coinvolto 98 pazienti con diagnosi di osteonecrosi della mandibola, 13 dei quali erano stati trattati con bifosfonati per via orale per la cura o la prevenzione dell’osteoporosi. Di questi 13 pazienti (tutte donne), 2 sono state escluse dallo studio perché avevano in passato ricevuto un trattamento con bifosfonati per ev. L’analisi finale è quindi stata condotta su 11 soggetti. La durata media di utilizzo dell’alendronato è stata di 4,1 anni (intervallo: 1,5-7 anni). L’osteonecrosi della mandibola è emersa dopo un intervento di chirurgia dentaria in 9 pazienti, mentre nei restanti 2 casi in seguito a utilizzo di dentiere non adatte. A tutte le pazienti è stata prescritta una terapia antimicrobica a lungo termine con amoxicillina o doxiciclina, mentre 7 di loro sono state sottoposte a procedure chirurgiche di lieve entità (i.e. levigamento/raschiamento). Dei 9 soggetti valutati dopo 6 mesi di follow-up, 3 erano guariti completamente, 1 era parzialmente guarito mentre i restanti 3 non avevano avuto miglioramenti. Il fumo potrebbe avere un effetto sinergico nella patogenesi della osteonecrosi della mandibola, le fumatrici accanite hanno infatti avuto una guarigione più difficoltosa.
In un altro studio con 119 casi di osteonecrosi, il tempo intercorso tra l’assunzione di alendronato e l’insorgenza dei primi sintomi è stato di 3 anni, in confronto ai 14,3 mesi registrati per il pamidronato e i 9,4 mesi per lo zoledronato1. La caratteristica collocazione dell’osteonecrosi indotta da bifosfonati nella cavità orale può essere attribuita ad alcuni elementi: uno dei principali fattori di rischio per l’osteonecrosi della mascella da alendronato, come da altri bifosfonati, è dato dalla durata della terapia, i pazienti maggiormente a rischio sono quelli trattati per più di 12 mesi. L’alendronato, analogamente a risedronato, pamidronato, acido zoledronico e ibandronato, è un aminobifosfonato in quanto contiene nella sua catena un gruppo nitrogeno che gli conferisce una maggiore potenza rispetto ai non-aminobifosfonati; esso rimane nello scheletro senza essere degradato per molto tempo: con un tempo di emivita che sembra essere superiore ai 12 anni. I dati provenienti dalla letteratura suggeriscono che l’alendronato non si distribuisce in modo uniforme nello scheletro ma si concentra maggiormente nelle aree dove l’attività osteoclastica è più intensa2. Inoltre, la maggiore esposizione della cavità orale all’ambiente esterno, permessa dal solco gengivale, può facilitare l’infezione dell’osso sottostante. Di conseguenza, le estrazioni dentarie o altre procedure invasive che richiedono una maggiore capacità riparativa e di rimodellamento dell’osso, aumentano il rischio di osteonecrosi, aggravato anche dalle proprietà anti-angiogenetiche dei bifosfonati. Infine, fattori patogenetici quali terapie (chemioterapia, radioterapia, steroidi) e/o patologie concomitanti predispongono maggiormente all’insorgenza di tali complicanze. Un approccio ragionevole all’insorgenza di osteonecrosi della mandibola nei pazienti che assumono alendronato per periodi di tempo prolungati sembra essere quello di interrompere la loro assunzione prima e dopo un intervento di chirurgia dentaria elettivo. Due anni di terapia con 20 mg/die di alendronato, seguiti da 3 anni a 5 mg/die sopprimono il turn over osseo in modo irrecuperabile. Al contrario, alcuni autori [3] sostengono che dopo 2 anni dalla sospensione di un trattamento con 2,5 mg/5 mg al giorno di alendronato, si verifichi un aumento della densità ossea4. In ogni caso, senza ulteriori studi, non è ancora possibile stabilire quanto tempo prima un paziente che assume alendronato debba interrompere la terapia per poter affrontare senza complicazioni un intervento di chirurgia elettiva.
- Marx RE, Sawatari Y, Fortin M, et al. Bisphosphonate-induced exposed bone (osteonecrosis/osteopetrosis) of the jaws: risk factors, recognition, prevention, and treatment. J Oral Maxillofac Surg 2005; 63(11):1567-75
- Rutkowski JL, Johnson DA, Smith DM. Clinical concerns of alendronate use. J Oral Maxillofac Surg 2007; 65(2):363-4
- Bjarnason NH. Ten years of alendronate treatment for osteoporosis in postmenopausal women N Engl J Med 2004; 351(2):190-2
- Ravn P, Bidstrup M, Wasnich RD, et al. Alendronate and estrogen-progestin in the long-term prevention of bone loss: four-year results from the early postmenopausal intervention cohort study. A randomized, controlled trial. Ann Intern Med 1999; 131(12):935-42