Che cosa fare con pochi bianchi
I dubbi del medico di medicina generale
Sono in ambulatorio, è pomeriggio e mi telefonano dal Laboratorio dell’Ospedale: “La sua paziente ha solo 40 neutrofili per millimetro cubo!”. Vado in tensione. Il valore è nettamente sotto la soglia di allarme dei neutrofili (<500/mm3). Telefono immediatamente alla paziente, una donna di circa 45 anni, in cura da qualche mese con docetaxel e trastuzumab per un carcinoma della mammella. La invito a rivolgersi al più presto all’oncologo dell’Ospedale veneto da cui è seguita per vedere se è il caso di somministrare un farmaco per aumentare i neutrofili. La neutropenia è insorta circa 10-15 giorni dopo l’ultimo ciclo di chemioterapia, nel quale non era stato somministrato a scopo preventivo nessun fattore di crescita granulocitaria. Dopo qualche ora la paziente mi telefona: “L’oncologo ha detto che il farmaco per far aumentare i globuli bianchi serve solo per la prevenzione o se compare la febbre”. Due settimane dopo, risaliti i bianchi, la donna viene sottoposta a un altro ciclo di chemioterapia e dal giorno seguente a otto iniezioni di lenograstim. La paziente mi dice di essere frastornata, mi sembra che inizi a perdere fiducia nella terapia. A me intanto sopraggiunge un dubbio: a che cosa serve eseguire i controlli emocromocitometrici dopo la chemioterapia se poi essi producono solo allarmi e inazione visto che non si dà nessuna cura? Inoltre, né la donna né io, il suo medico di famiglia, siamo stati informati dagli oncologi su come gestire la non rara neutropenia da chemioterapici. Sorgono a questo punto altre domande: è giusto evitare l’uso preventivo di fattori di crescita leucocitaria all’inizio della chemioterapia? E’ proprio assodato che il lenograstim non serva per trattare una neutropenia grave, se pur apiretica? Qual è la modalità migliore per somministrare questi farmaci?
Le risposte dell’oncologo
L’utilizzo dei fattori di crescita granulocitari in oncologia segue generalmente le raccomandazioni delle varie linee guida.1-4 Le raccomandazioni distinguono tra impiego profilattico e impiego terapeutico e si possono così riassumere:
Profilassi primaria
- E’ raccomandata nei pazienti ad alto rischio (>20%) di neutropenia febbrile.
- E’ raccomandata anche con livelli di rischio di neutropenia febbrile65 anni, cattivo performance status, precedenti episodi di neutropenia febbrile, cattivo stato nutrizionale, ferite aperte o infezioni in atto, malattia in fase molto avanzata, pretrattamenti pesanti inclusa radioterapia a campi estesi, chemioradioterapia concomitante, infiltrazione tumorale del midollo osseo con citopenia secondaria, gravi comorbilità.
Profilassi secondaria
E’ raccomandata nei pazienti che hanno avuto un pregresso episodio di neutropenia febbrile o una neutropenia così prolungata da determinare un ritardo del ciclo successivo di chemioterapia e che effettuano un trattamento la cui riduzione di dose può compromettere la sopravvivenza libera da malattia o globale.
Terapia
E’ raccomandata per:
- pazienti con neutropenia febbrile ad alto rischio: età >65 anni, comorbilità, complicanze infettive, tipi particolari di tumore; sviluppo di neutropenia profonda (10 giorni); malattia tumorale in progressione e non controllata, polmonite, ipotensione e disfunzione multiorgano, infezione fungina invasiva, ospedalizzazione del paziente all’esordio della febbre.
La terapia non è raccomandata per:
- pazienti con neutropenia apiretici;
- pazienti con neutropenia febbrile che non abbiano le condizioni citate al punto precedente.
Intensità di dose
L’impiego del fattore di crescita per consentire un regime chemioterapico più intenso è limitato a poche situazioni nelle quali è emerso un vantaggio clinico dei regimi ad alte dosi rispetto a quelle standard.
Mobilizzazione di staminali periferiche
E’ un’indicazione specialistica, per lo più limitata al campo d’impiego onco-ematologico; in questi casi la somministrazione del fattore di crescita è indicata:
- in aggiunta al trattamento chemioterapico, in vista dell’autotrapianto;
- dopo trapianto autologo;
- dopo trapianto di cellule staminali periferiche autologhe.
Nel caso specifico quindi l’oncologo ha correttamente deciso di non prescrivere la terapia con fattori di crescita, mentre ha fatto poi ricorso a una forma di profilassi secondaria. Il problema si è generato invece per un difetto di comunicazione tra oncologo, medico di medicina generale e paziente. Esso pone l’accento sull’opportunità che le linee guida oncologiche vengano maggiormente diffuse nella medicina generale, dal momento che spesso e giustamente i medici di famiglia hanno un ruolo attivo nella sorveglianza post terapia e devono poter essere partner fondamentali per l’oncologo, specialmente quando il trattamento chemioterapico avviene in regime ambulatoriale o in day hospital.
- J Natl Cancer Inst 2005; 97:710-11.
- J Clin Oncol 2006; 24:3187-205. CDI #nnr#
- Eur J Cancer 2006; 42:2433-53. CDI #nnr#
- http://www.aiom.it
di Francesco Del Zotti, medico di medicina generale, Verona di Claudio Graiff, primario Oncologia, Ospedale di Bolzano