Farmacovigilanza e farmacogenetica: considerazioni sul presente e sul futuro
La variabilità interindividuale nella risposta ai farmaci rappresenta una delle problematiche più rilevanti per la corretta gestione dei pazienti nella pratica clinica. L’insieme dei professionisti della salute si trova a dover fronteggiare possibili variazioni inattese di risposta individuale ai medicinali responsabili di fallimenti terapeutici e di reazioni avverse, molte delle quali clinicamente rilevanti. L’osservazione che lo stesso farmaco somministrato alla stessa dose possa essere efficace nella maggioranza dei soggetti trattati, ma scarsamente efficace e/o indurre effetti collaterali, a volte anche gravi, in alcuni pazienti è un problema da sempre rilevato ma che oggi viene amplificato in virtù dell’aumentato utilizzo dei farmaci in politerapia.
Sebbene un tempo la variabilità farmacocinetica e farmacodinamica venisse prevalentemente correlata all’influenza di fattori non genetici (quali l’età, il sesso, lo stato nutrizionale, la funzionalità renale ed epatica, l’abuso di alcol, il fumo, la concomitante assunzione di altri farmaci e la presenza di comorbilità), intorno agli anni ‘50 la comunità scientifica ha intravisto nei fattori ereditari una componente importante della diversità nella risposta individuale ai farmaci, attribuendo quindi ai geni la capacità di influenzare la variabilità di reazione a un dato principio attivo, incluse l’assenza di risposta clinica a un determinato trattamento o la comparsa di reazioni avverse ai farmaci (ADRs). Questo ha portato negli anni allo sviluppo di studi sugli aspetti farmacogenetici intesi come variazioni alleliche in geni correlati con assorbimento, distribuzione, metabolismo, escrezione e azione biologica del farmaco che possano influenzarne l’azione.
La quarta causa di morte
Le ADRs costituiscono la quarta causa di morte negli Stati Uniti, un dato che persiste di anno in anno nonostante la sempre maggiore attenzione al problema; il notevole impatto clinico delle ADRs rende necessarie strategie mirate, volte a minimizzare il rischio dell’insorgenza di un evento avverso farmaco-indotto che, oltre a minare sensibilmente lo stato di salute del paziente, concorre ad aumentare considerevolmente i costi sanitari. Un approccio alla ADR che contempli anche una analisi farmacogenetica può fornire preziose informazioni consentendo di prevenire o ridurre al minimo i danni associati agli effetti avversi correlati alla somministrazione di uno specifico farmaco.
Gli effetti della genetica
Dal punto di vista farmacogenetico possiamo considerare due tipi di effetti della componente genetica sui farmaci responsabili di una ADR, includendo nella definizione di ADR anche la mancata efficacia.
Un primo effetto sono le reazioni di ipersensibilità legate essenzialmente a varianti polimorfiche a carico del complesso maggiore di istocompatibilità; un secondo sono le modulazioni in senso positivo o negativo della risposta a un farmaco dovute a varianti alleliche nei geni responsabili dell’assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione del farmaco o nel bersaglio terapeutico primario del farmaco come per esempio recettori ed enzimi. In campo oncologico poi la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che anche le varianti somatiche, tipiche del tumore, possono contribuire a influenzare la risposta alla terapia.
Le moderne tecniche di biologia molecolare consentono di identificare agevolmente questi polimorfismi, a costi spesso inferiori rispetto ai comuni esami diagnostici. L’identificazione di un particolare polimorfismo, associato a reazioni avverse, prima della somministrazione di un farmaco, permetterebbe la scelta di strategie terapeutiche alternative che potrebbero prevedere:
- l’impiego di un farmaco della stessa classe non influenzato nella sua azione dal polimorfismo
- l’aggiustamento della dose del farmaco inizialmente prescelto
- un più approfondito e prolungato monitoraggio del farmaco e del paziente 4) l’impiego di un farmaco alternativo.
Gli studi sulle variazioni interindividuali
Gli studi provenienti dalla ricerca in farmacogenetica sulle variazioni interindividuali nella sequenza del DNA consentono di predire la risposta di un paziente a un medicinale sulla base di un test farmacogenetico, evitando così di incorrere in gravi ADRs e contribuendo significativamente a ottimizzare la gestione farmacologica del paziente. Diversi studi hanno mostrato che il corretto uso della farmacogenetica è utile al SSN (migliora l’approccio prescrittivo e accresce l’aderenza terapeutica). A oggi molti test sono entrati nella pratica clinica quotidiana in diversi paesi perché supportati da una solida e consistente letteratura scientifica (tra cui HLA-B*5701 per l’abacavir, HLA-B*1502 e HLA-A*3101 per la carbamazepina, CYP2C9 e VKORC1 per il warfarin, TPMT per le tiopurine, UGT1A1*28 per l’irinotecan, DPYD per le fluoropirimidine, CYP2D6 e CYP2C19 per gli antidepressivi triciclici e SSRI, CYP2D6 per il tamoxifene e la codeina, CYP3A5 per il tacrolimus, CYP2C19 per il voriconazolo, CYP2B6 per l’efavirenz).
Per citare l’esempio degli Stati Uniti, dove l’FDA ha aggiunto informazioni di farmacogenomica nella scheda clinica di oltre 150 farmaci, i test farmacogenetici obbligatori sono ben 56. In Italia l’unico test obbligatorio, se si esclude il campo dell’analisi delle variazioni somatiche sul tessuto tumorale, prevede la ricerca della variante allelica HLA-B*5701 prima di iniziare una terapia con il farmaco antiretrovirale abacavir. La reazione di ipersensibilità ad abacavir si manifesta tipicamente con rash eritematoso, macopapulare e confluente con possibile coinvolgimento di uno o più organi interni. E’ certamente una reazione grave che giustifica il test farmacogenetico. Tuttavia vi sono altre situazioni di pericolosità simile con altri farmaci per i quali sarebbe bene venisse introdotto il test farmacogenetico.
Tra i farmaci coinvolti nell’insorgenza di gravi effetti indesiderati geneticamente determinati, l’allopurinolo rappresenta un caso estremamente esemplificativo di quanto detto alla luce del fatto che il suo largo impiego nella pratica clinica rappresenta una delle cause più frequenti di ADRs: l’agente anti gotta è responsabile del 5% di tutti i casi di sindrome da ipersensibilità a farmaci. La presenza dell’allele HLA-B*5801 (nell’1-6% della popolazione caucasica) conferisce un rischio aumentato di gravi reazioni cutanee allopurinolo-indotte (SCAR), tra cui la sindrome di Stevens-Johnson (SJS) e la Necrolisi Epidermica Tossica (TEN).
Un altro esempio delle possibili interrelazioni tra farmacogenetica e farmacodinamica con importanti ripercussioni cliniche è rappresentato dalla terapia con warfarin. La notevole variabilità nella risposta a questo farmaco in alcuni soggetti determina complicazioni emorragiche. Tali complicanze sono legate alla presenza di polimorfismi nel gene VKORC1, che determina un minor potere coagulante di VKORC1, enzima target del farmaco, e conseguente maggiore sensibilità all’azione inibitoria di warfarin (e dei farmaci cumarinici in generale) con aumento del rischio emorragico. Se è vero che l’attuale monitoraggio attraverso la misura dell’INR (International Normalised Ratio) è da considerarsi sufficiente, diversi studi hanno dimostrato che se lo si accompagna al test farmacogenetico si ha una ulteriore riduzione di ADRs che portano a ospedalizzazione, perché si ottiene una migliore definizione del dosaggio ottimale.
Una lunga strada da fare
Queste osservazioni sono emblematiche della lunga strada che l’implementazione della farmacogenetica nel nostro Paese deve ancora fare. Le problematiche sono sia strutturali sia culturali. La sanità statunitense vede una forte presenza delle assicurazioni con una forte attenzione al rapporto costi/benefici. Mentre la presa in carico di una ADR costa in media fra tremila e cinquemila euro a seconda della gravità, un test farmacogenetico costa intorno ai 100 euro per gene candidato.
Vi è anche un problema culturale che è legato indirettamente alla storia della sanità in Italia, che non ha visto uno sviluppo adeguato di strutture capillari di farmacologia clinica: è raro trovare programmi formativi di educazione continua in medicina in tema di farmacogenetica diretti al personale sanitario. E’ senza dubbio auspicabile un aumento dei percorsi di educazione professionale disponibili per i clinici, al fine di aumentarne la consapevolezza e la sensibilità in materia, e favorire di conseguenza un più vigile monitoraggio clinico dei pazienti. Il problema non è tuttavia solo italiano, la farmacogenetica è entrata nella pratica clinica da quasi vent’anni ma i test considerati rilevanti sono relativamente pochi anche nei paesi in cui questa disciplina è sviluppata: in altri termini la farmacogenetica ha avuto uno sviluppo minore di quanto inizialmente preconizzato.Quali possono esserne le ragioni?
Un primo problema sta nella farmacogenetica stessa: mentre è relativamente facile ottenere informazioni su risposte di tipo sì/no, come quelle derivanti dall’associazione tra ipersensibilità e varianti alleliche dei complessi HLA, è assai più difficile ottenere informazioni affidabili su polimorfismi che influiscono solo modulando la risposta. Su diciottomila lavori circa presenti in letteratura sugli aspetti di modulazione della risposta, solo il 10% riesce a suggerire una possibile associazione causale tra risposta e polimorfismi e di queste associazioni ben poche reggono alla validazione clinica. Ciò non è sorprendente e diversi fattori possono avere variamente concorso a questa validità ancora limitata; le metodiche di analisi nell’era pre genome-wide non permettevano un’analisi agevole delle varianti minoritarie. Oggi gli approcci genome-wide che permettano di identificare associazioni non ipotizzabili con un criterio di bersaglio farmacologico o enzima metabolizzatore sono diventati possibili. Si potrà quindi studiare per gli effetti farmacologici multi-fattoriali anche il ruolo combinato di più geni responsabili dell’efficacia o della tossicità di uno o più farmaci.
Questo sarà, verosimilmente, reso possibile grazie allo sviluppo di network internazionali che si sono costituiti negli anni recenti, per esempio il Clinical Pharmacogenetics Implementation Consortium (CPIC), consorzio congiunto del Pharmacogenomics Research Network del National Institutes of Health e del Pharmacogenetics Knowledge Base, che ha già redatto delle linee guida su coppie farmaco-gene con evidenze derivanti da trial randomizzati, sufficienti per influenzare la prescrizione; con un caveat: avere grandi database è importante ma bisognerà sviluppare anche domande corrette per interrogarli. Questa forse è la sfida più importante per i farmacologi clinici.
Un secondo passo in avanti importante è stato di recente fatto grazie all’introduzione della farmacogenetica nel percorso autorizzativo dei farmaci, in accordo alle linee guida emanate dall’EMA nel 2014. In sostanza EMA richiede una valutazione farmacogenetica a partire dalla fase I se vi sono significativi scostamenti nella farmacocinetica in un gruppo definito di soggetti e dalla fase II in caso di reazioni avverse per le quali una base farmacogenetica sia ragionevole. Questo permetterà l’introduzione di test farmacogenetici contemporaneamente alla immissione in commercio del farmaco quando essi siano rilevanti.
Un terzo passo in avanti che può essere sfruttato ai fini della ricerca in farmacogenetica è squisitamente italiano. La recente modifica nella legislazione sugli studi clinici permetterà lo sviluppo di studi osservazionali in cui, a differenza di oggi, la farmacogenetica sarà includibile. Questo permetterà, se i farmacologi clinici e i medici specialisti sapranno coordinarsi bene, l’acquisizione di informazioni in condizioni di real life a oggi non ottenibili sulla possibile associazione tra fenotipo clinico e varianti farmacogenetiche.
Lo status di sviluppo clinico della farmacogenetica è dunque ancora, paradossalmente, in fase di espansione. Dalle nuove metodologie e strategie accennate in breve più sopra ci si attende uno sviluppo ulteriore; l’Italia può, grazie ad alcune sue peculiarità giocare ancora un ruolo primario, anche se a oggi siamo ancora indietro rispetto a molti paesi. Sarebbe assai importante al riguardo che il Ministero della Salute costituisse un tavolo di confronto tra i vari attori protagonisti, in modo da finalizzare una strategia di sviluppo ambiziosa, condivisa ma anche sostenibile.
Definizioni
Farmacogenetica – La farmacogenetica è una branca della farmacologia che studia le variazioni interindividuali nella sequenza del DNA in relazione alla risposta ai farmaci, sia in termini di efficacia sia di tossicità. Tali variazioni possono essere presenti in geni che codificano per proteine coinvolte nell’assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione del farmaco (farmacocinetica) e in quelli che codificano per il bersaglio terapeutico primario, come per esempio recettori, canali ionici, enzimi, eccetera (farmacodinamica). Polimorfismi a carico di geni appartenenti a queste due classi possono determinare modificazioni nell’azione di un farmaco provocando l’assenza di risposta clinica a un determinato trattamento o la comparsa di reazioni avverse.
Farmacogenomica – Con il termine farmacogenomica si intende l’insieme degli approcci che, avvalendosi delle informazioni acquisite sul genoma e sui suoi prodotti, mirano a individuare nuovi bersagli terapeutici: scoprire e realizzare farmaci (farmacologia razionale) e studiare la risposta da essi prodotta in funzione della variabilità genetica degli individui. Il termine farmacogenomica non descrive quindi una disciplina scientifica consolidata, ma presuppone piuttosto la fondata speranza che le conoscenze ottenute dal completamento della caratterizzazione del genoma umano e del genoma di un numero crescente di organismi patogeni possano condurre a una nuova scienza farmacologica. Questa dovrebbe permettere di sviluppare farmaci mirati e di progettare razionalmente strategie terapeutiche personalizzate e più sicure.
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Carla Carnovale, Cristina Montrasio, Stefania Cheli ed Emilio Clementi
Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche L. Sacco, Unità Operativa di Farmacologia clinica ASST Fatebenefratelli Sacco, Università di Milano, Via GB Grassi 74, 20157 Milano