Il fenomeno sommerso dell’uso di alte dosi di benzodiazepine
La terapia con benzodiazepine ad alte dosi va sconsigliata.
La sospensione da eseguire in ospedale richiede sempre molta cautela per i possibili gravi sintomi d’astinenza
Le benzodiazepine sono da più di 50 anni dei veri “best seller”. La chiave del loro successo duraturo è riconducibile non solo alla maneggevolezza e alla diffusa prescrizione, ma anche alla loro potenzialità di indurre dipendenza e tolleranza, motivo per cui il loro uso è raccomandato per un tempo molto limitato. Tali raccomandazioni sono però state largamente disattese dai medici pratici, dagli enti di controllo governativi e, non va dimenticato, dai pazienti stessi.
Non è facile ignorare i rapidi benefici che tali farmaci apportano a condizioni molto diffuse come ansia e insonnia con effetti avversi limitati. Una delle chiavi per comprendere l’enorme diffusione delle benzodiazepine sta nella loro sostanziale assenza di tossicità acuta (salvo i casi di sovradosaggio). Contemporaneamente, però, l’uso cronico spesso comporta numerosi effetti avversi rilevanti tra cui deterioramento cognitivo, rischio di incidenti stradali e di cadute, dipendenza.
Uno degli ostacoli alla corretta comprensione del problema della dipendenza dalle benzodiazepine è stata la tacita accettazione, da parte di medici e pazienti, dell’uso a lungo termine di tali farmaci, fenomeno che coinvolge tra il 2 e il 7,5 % della popolazione dei paesi ad alto sviluppo economico. Inoltre è stata sottovalutata la situazione di quanti stabilmente usano alte dosi di benzodiazepine, fenomeno conosciuto ma sbrigativamente relegato al mondo marginale dei disturbi psichiatrici maggiori e dei tossicodipendenti. Questa visione è limitativa. La tolleranza, nel caso delle benzodiazepine, ha alcune caratteristiche peculiari rispetto ad altri farmaci d’abuso. La tossicità molto bassa delle benzodiazepine (diversa dagli oppiacei o dall’alcol) e la capacità di indurre tolleranza possono infatti portare a un sovradosaggio a volte davvero sorprendente. Per motivi non ancora chiariti (genetici? legati a determinati tipi di benzodiazepine?) esiste una quota significativa di utilizzatori di alte dosi di benzodiazepine monodipendenti che sviluppa tolleranza ma che non presenta disturbi psichiatrici maggiori.
La ricerca epidemiologica ha sostanzialmente trascurato gli utilizzatori di alte dosi di benzodiazepine. A oggi sono pochi gli studi che hanno valutato la qualità di vita in coloro che assumono benzodiazepine a lungo termine e ancor meno negli utilizzatori di alte dosi nella popolazione generale, nonostante le dimensioni significative del fenomeno. Dai pochi dati esistenti, un uso superiore alle dosi massime consentite riguarda l’1,6% della popolazione svizzera, paese dove è molto più difficile ottenere una benzodiazepina senza ricetta rispetto all’Italia. Questi dati applicati alla popolazione italiana farebbero presumere che siano coinvolte, con intensità e gravità diverse, alcune centinaia di migliaia di italiani. Una quota rilevante di questi farmaci sfugge inoltre alla prescrizione medica, trovando nella concessione senza regolare ricetta la propria fonte di approvvigionamento.
La mancata focalizzazione della dipendenza da benzodiazepine ha portato a indicare la pratica di scalare gradualmente le benzodiazepine come unico sistema per la sospensione.
Generalmente la diminuzione lenta, se correttamente applicata, funziona negli utilizzatori a lungo termine, molto meno nel caso degli utilizzatori di alte dosi. In altre parole, se il decalage per i dipendenti da dosi terapeutiche è lungo e piuttosto impegnativo, diviene quasi impossibile negli utilizzatori di alte dosi.
Il problema è rilevante perché l’astinenza nei pazienti che prendevano alte dosi di benzodiazepine è un fenomeno molto mal tollerato e rischioso per la salute, con disturbi a livello della sfera ansiosa e del sensorio. In alcuni casi possono verificarsi eventi maggiori come crisi epilettiche, potenzialmente (in via diretta o indiretta) letali.
Per gli utilizzatori di alte dosi di benzodiazepine dovrebbe imporsi un ricovero ospedaliero per gestire la sospensione della terapia. L’impostazione tradizionale prevede in questi casi, generalmente, una sostituzione con benzodiazepine a lunga emivita a dosi decrescenti, ma tale procedura è gravata da alti costi per la lunghezza dei ricoveri e da un’alta percentuale di abbandoni e di ricadute. E’ questo l’ambito dove trova indicazione l’uso del flumazenil in infusione lenta.
Il flumazenil, somministrato per via parenterale rapida, viene usato in tutto il mondo per trattare l’overdose da benzodiazepine. E’ considerato infatti un antagonista delle benzodiazepine. Dati sperimentali hanno però provato che se il flumazenil viene somministrato lentamente e in modo prolungato a pazienti tolleranti alle benzodiazepine, la sua azione è di agonismo parziale sui recettori delle benzodiazepine, riducendo in modo significativo sintomi e segni dell’astinenza da sospensione. Quando utilizzato nella disintossicazione da benzodiazepine in pazienti tolleranti, il flumazenil ha mostrato le seguenti azioni farmacologiche:
- rapida attenuazione dei sintomi e segni di astinenza;
- rapida normalizzazione e up-regulation dei recettori delle benzodiazepine;
- riduzione del craving (desiderio insaziabile);
- limitati tassi di ricaduta.
Dalle prime esperienze negli anni ottanta su piccole serie di pazienti a oggi sono stati pochi i lavori in letteratura e ancor meno i centri che hanno praticato la disintossicazione con flumazenil. La disintossicazione con infusione lenta di flumazenil stenta a divenire una “good practice”, forse per la carenza di letteratura o per disinteresse del mondo accademico, nonostante che la dipendenza da benzodiazepine sia la più tipica forma di dipendenza iatrogena. Inoltre l’industria farmaceutica non ha alcun interesse ad approfondire questi problemi legati alle benzodiazepine: queste vecchie molecole sono infatti ancora tra i farmaci più venduti al mondo.
Addiction 2011;106:2086-109. CDI
Int Clin Psychopharmacol 2007;22:292-8.
Br J Clin Pharmacol 2014;77:239-41. CDI
Fabio Lugoboni, Marco Faccini, Rebecca Casari, Lorenzo Zamboni
Medicina delle Dipendenze, Azienda Ospedaliera Universitaria
Verona