Il caso dabigatran: l’importanza della trasparenza
“Can we rely on RE-LY?” era nel 2009 il titolo dell’editoriale del New England Journal of Medicine1 a commento dello studio RE-LY di confronto tra il dabigatran (110 e 150 mg), primo esponente della classe dei nuovi anticoagulanti orali, e il warfarin in pazienti con fibrillazione atriale non valvolare, a rischio di ictus. Da questo studio è emerso che entrambi i dosaggi di dabigatran erano non inferiori al trattamento con warfarin in termini di efficacia (ictus e embolia sistemica); inoltre, alla dose di 150 mg il dabigatran era più efficace rispetto al gruppo di confronto, mentre al dosaggio di 110 mg risultava superiore in termini di sicurezza (sanguinamenti maggiori).
Uno studio affidabile?
Nonostante alcune riserve, secondo gli editorialisti lo studio poteva essere considerato affidabile. Tuttavia, già al momento della richiesta di autorizzazione del farmaco l’FDA aveva sollevato dubbi circa il disegno e la qualità dei dati; l’approvazione del farmaco, avvenuta nel 2010 negli Stati Uniti e nel 2011 in Europa, era quindi stata ritardata a fronte della richiesta di ulteriori dati alla Boehringer, l’azienda produttrice.
A cinque anni dall’editoriale del New England Journal of Medicine, il British Medical Journal ha pubblicato un’inchiesta sulla mancanza di trasparenza dei dati forniti alle agenzie regolatorie dalla Boehringer.3 L’impiego del nuovo anticoagulante a dosi fisse, senza necessità di monitoraggio dei livelli ematici è stato il messaggio principale con il quale l’azienda ha lanciato il dabigatran sul mercato e ha così potuto beneficiare dei vantaggi concessi dalle agenzie regolatorie per promuovere lo sviluppo di farmaci innovativi. Questo ha permesso di registrare il farmaco presentando i risultati di un solo studio, il RE-LY appunto, anziché di 2 studi, come richiesto dalla normativa statunitense per farmaci privi del requisito dell’innovatività. I dati presentati in quest’unico studio e le evidenze sulle quali si sono basate le principali linee guida nella raccomandazione all’utilizzo del dabigatran sembrano ora incompleti. I familiari di alcuni pazienti arruolati nel trial registrativo e deceduti per emorragia in corso di trattamento hanno intentato una causa nei confronti della Boehringer, che ha registrato questi casi come “eventi cardiovascolari”, senza specificare la presenza dell’evento emorragico. L’azienda avrebbe inoltre omesso informazioni importanti sul monitoraggio delle concentrazioni ematiche del dabigatran e di aggiustare la dose di farmaco con riduzioni rispetto al warfarin del rischio di sanguinamento stimate intorno al 30-40%, senza alcun effetto sul rischio di comparsa di ictus.
Non serve il monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche?
La questione della necessità di monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche di dabigatran era già stata sollevata sia dall’FDA, durante l’iter di registrazione e approvazione, sia dall’EMA. Da documenti EMA del 2010 è emerso che l’azienda produttrice in fase di registrazione aveva comunicato all’Agenzia il limite massimo di concentrazione plasmatica di dabigatran (pari a 200 ng/ml) al di sopra del quale ipotizzare un aumento del rischio di sanguinamento. La domanda che si pone l’indagine riportata dal British Medical Journal è: “La Boehringer aveva fornito queste informazioni anche all’FDA? E se l’EMA era in possesso di questi dati, perché non li ha condivisi con i medici prescrittori?”. La Boehringer ha in seguito voluto precisare di non aver mai indicato un valore limite di concentrazione plasmatica. Inoltre, l’FDA aveva affrontato la problematica della notevole variabilità legata al profilo farmacocinetico del dabigatran, per cui a parità di dosaggio la concentrazione plasmatica del farmaco poteva variare fino a 5 volte. Tali preoccupazioni non hanno comunque condizionato l’approvazione del farmaco. Documenti confidenziali interni all’azienda e resi pubblici in sede di dibattito processuale, hanno portato alla luce la bozza di un articolo, scritta nel 2011 ma pubblicata da Reilly4 solo nel 2014, nella quale si parlava chiaramente del monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche di dabigatran per migliorare il rapporto rischio-beneficio del farmaco. Tali risultati sono stati omessi nella versione pubblicata dell’articolo, che si limita a suggerire il monitoraggio della funzionalità renale dei pazienti, prima e durante il trattamento con dabigatran, al fine di ridurne il dosaggio in caso di compromissione della funzionalità renale.
Nel 2012 il dabigatran ha raggiunto lo status di blockbuster, con 1 miliardo di dollari di fatturato. Questo risultato va però di pari passo con l’elevato numero di segnalazioni spontanee raccolte per il dabigatran dall’FDA nel 2011: 542 casi di decesso e 2.367 di emorragie. Nello stesso periodo sono stati segnalati 72 decessi da warfarin.3
Questi dati dovrebbero far riflettere. È evidente infatti quale sia la necessità di studi indipendenti e sistematici sul corretto utilizzo di dabigatran (e di confronto con gli altri due farmaci di questa nuova categoria: apixaban e rivaroxaban), ma dovrebbe risultare altrettanto evidente l’importanza della trasparenza dei dati ottenuti dagli studi clinici, per i quali le aziende produttrici non avevano, fino a gennaio di quest’anno, nessun obbligo legale di condivisione nei confronti delle agenzie regolatorie.
Le nuove procedure dell’Agenzia europea sulla trasparenza
Dopo circa due anni di discussioni e confronti sull’annoso dibattito legato al concetto di trasparenza nella sperimentazione clinica, a partire dal 1° gennaio 2015 sono finalmente disponibili le nuove procedure europee5 che renderanno possibile la pubblicazione e l’accesso anche ai dati che troppo spesso non vengono divulgati dalle aziende farmaceutiche. Tali informazioni saranno disponibili solo per i medicinali autorizzati secondo procedura centralizzata. Prima di questa nuova policy, l’EMA consentiva su richiesta il rilascio di report sui trial clinici, secondo una politica di accesso ai documenti regolatori che era in vigore dalla fine del 2010.6 L’intento dichiarato dall’EMA è quello da un lato di aumentare la fiducia e la comprensione da parte del pubblico sulle modalità con cui vengono prese le decisioni regolatorie, dall’altro di dare la possibilità a ricercatori universitari o indipendenti di rivalutare i dati contenuti nei Clinical Study Reports (CSR).
Il lungo percorso che ha portato alla stesura di questa nuova policy ha avuto origine a partire dal novembre 2012; la bozza è stata quindi resa disponibile a partire dal giugno dell’anno successivo per l’avvio della prima consultazione pubblica, con l’intento di soddisfare i bisogni dei vari stakeholder. Oltre un migliaio di commenti sono giunti all’EMA da parte di professionisti sanitari, industrie, università, agenzie regolatorie e associazioni di pazienti.
Tuttavia, nel maggio del 2014, l’EMA ha presentato una revisione di tale bozza che mostrava più di un punto controverso, tra cui la possibilità di visualizzare solo a video i documenti, senza poterli salvare, scaricare o semplicemente stampare. Inoltre, erano poste restrizioni sui termini di utilizzo dei dati, che obbligavano il singolo utente a esporsi personalmente in caso di azioni legali intentate dall’azienda farmaceutica. Un altro particolare alquanto discutibile riguardava la possibilità di oscuramento di dati, ritenuti confidenziali dal punto di vista commerciale da parte dell’azienda farmaceutica, facendo presagire il rischio di censura secondo convenienza.
Fortunatamente, e grazie anche al clamore mediatico generato dalla protesta per queste inaspettate modifiche,7 nel giugno 2014 l’EMA ha fatto un passo indietro e il 2 ottobre scorso ha adottato la versione finale della procedura, con la quale viene consentito l’accesso ai CSR attraverso due tipi di profilo: il primo che garantisce solo la visualizzazione dei dati a qualsiasi utente e il secondo, legato a una procedura di registrazione più restrittiva, pensato per personale accademico, che consente di scaricare, salvare e stampare le informazioni richieste. I dati non potranno essere utilizzati per ricerche a fini commerciali o per supportare una richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale o per estensioni o variazioni rispetto a un’autorizzazione già concessa.
Solo un piccolo passo avanti
Questo rappresenta tuttora solo un piccolo passo a completamento della prima fase del faticoso e lento processo sulla trasparenza dei dati clinici, che ne prevede una seconda, il cui obiettivo sarà quello di rendere pubblici anche i dati relativi ai singoli pazienti coinvolti nelle sperimentazioni.
Restano comunque diverse perplessità, prima fra tutte la rinuncia dell’EMA a richiedere regolarmente alle aziende la trasmissione di tutti i dati originali degli studi clinici in un formato che ne consenta una rianalisi da parte della stessa Agenzia, come annunciato nel 2012. La nuova procedura, inoltre, non si applica a richieste di autorizzazione presentate all’EMA prima del 1° gennaio 2015, come pure ai dati inerenti richieste di line extension o estensioni delle indicazioni per farmaci già autorizzati prima del 1° luglio 2015.
Di notevole rilievo è la possibilità, da parte dell’azienda farmaceutica, di oscurare informazioni che potrebbero minare la posizione competitiva o economica dell’azienda stessa, nonostante i dati dei trial clinici non siano considerati informazioni commerciali riservate. L’EMA ha comunque riconosciuto che, in circostanze limitate,5 l’oscuramento di certi dati prima della pubblicazione potrà essere concesso. L’azienda potrà richiedere l’oscuramento anche di altre sezioni, oltre a quelle previste, qualora riesca a fornire una giustificazione adeguata. Ciò lascia uno spazio grigio piuttosto ampio, nel quale le grandi compagnie potranno muoversi ed eseguire vere e proprie censure dietro le quali celare informazioni che potrebbero incidere sulla valutazione del rapporto rischio-beneficio di un medicinale. In questo modo, verrebbero intaccati quegli ottimi presupposti che hanno spinto l’EMA, e non solo, a compiere finalmente un passo in avanti verso la trasparenza.
La vicenda del dabigatran, così come altre emerse in passato (non dimentichiamo il caso dell’oseltamivir8) ci ricordano come il solo obbligo morale delle industrie farmaceutiche a rendere pubblici dati rilevanti per l’intera comunità scientifica non sia sufficiente a garantire la condivisione del sapere e a tutelare la salute dei pazienti.
- N Engl J Med 2009;361:1200-2. CDI
- N Engl J Med 2009;361:1139-51. CDI
- Brit Med J 2014;349:g4670. CDI
- J Am Coll Cardiol 2014;63:321-8. CDI
- EMA/240810/2013.
- EMA/110196/2006.
- ISDB Newsletter 2014;29:5-6. CDI
- The Guardian 10 April 2014.
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Unità di Farmacologia, Università di Bologna