L’impatto dell’infodemia di COVID-19 sui comportamenti della popolazione nell’uso dei farmaci
La pandemia di coronavirus 2019 (COVID-19) ha avuto un effetto profondo sulla vita delle persone, con ripercussioni sulla salute, il lavoro, l’economia, i rapporti sociali e la vita di tutti i giorni. La portata di questo evento ha fatto sì che in parallelo all’epidemia virale si osservasse anche quella che è stata definita “infodemia”, ovvero una massiccia iper-diffusione di notizie sulla malattia veicolate dai media.1 Questa mole di informazioni ha interessato ogni aspetto dell’epidemia, compresi diversi farmaci. Tra questi si possono annoverare farmaci già conosciuti e approvati per altre indicazioni con una potenziale efficacia nella prevenzione o nel trattamento di COVID-19, e farmaci di uso comune che potevano favorire l’infezione o una prognosi sfavorevole alla malattia.2,3
Informazioni di questo tipo sono state spesso comunicate in modo distorto, sensazionalistico e senza un adeguato supporto scientifico, con il rischio di indurre nella popolazione comportamenti pericolosi nei confronti di questi farmaci, con possibili conseguenze per la salute (vedi Figura 1). Istituzioni scientifiche e agenzie regolatorie hanno dovuto prendere posizione per impedire che informazioni trasmesse in modo inadeguato potessero avere conseguenze sulla salute pubblica.
Tra i farmaci coinvolti nell’infodemia hanno un ruolo di rilievo la clorochina e l’idrossiclorochina, già utilizzate con incerto successo nel 2003 nel trattamento della SARS. L’elevata somiglianza genetica tra SARS-CoV-2 e SARS-CoV e risultati incoraggianti di studi preclinici avevano identificato la clorochina e l’idrossiclorochina come possibile trattamento per COVID-19.4 I risultati positivi di un piccolo studio francese in aperto con importanti limitazioni metodologiche aveva acceso gli entusiasmi dei governi e dei media, tanto da indurre anche alcuni media a comunicare che questa cura per COVID-19 fosse efficace al 100%.5 Questa e altre comunicazioni simili hanno prodotto diversi effetti sul consumo di questi farmaci. Alcuni paesi si sono affrettati a farne scorta, persino interrompendone l’esportazione, mentre le persone hanno iniziato ad acquistare questi medicinali senza prescrizione medica, mettendo in crisi la fornitura per i pazienti che ricevevano clorochina o idrossiclorochina per indicazioni reumatologiche.6 Negli Stati Uniti ha fatto scalpore il decesso di un uomo che si è auto-somministrato un prodotto per la pulizia degli acquari contenente clorochina fosfato nel tentativo di prevenire l’infezione.7 Più in generale, l’auto-somministrazione di farmaci a base di clorochina o idrossiclorochina può esporre a gravi effetti collaterali, come morte cardiaca improvvisa dovuta ad aritmia e prolungamento dell’intervallo QT.
Per affrontare questa crisi, le autorità sanitarie si sono mosse in due direzioni. In primo luogo, sono state incoraggiate sperimentazioni cliniche per verificare i benefici e la sicurezza di trattamenti potenzialmente efficaci e, in secondo luogo, sono state implementate strategie di comunicazione adeguate con l’emissione di avvisi di sicurezza e note di chiarimento.8
Durante i primi mesi dell’epidemia i riflettori si sono accesi anche sui FANS, in particolare sull’ibuprofene, e su antipertensivi di largo uso quali gli ACE inibitori e i sartani. Alcuni studi preclinici hanno suggerito che questi farmaci potrebbero condividere un meccanismo comune che prevede un aumento dell’espressione della proteina ACE2, individuata come una delle “porte” di infezione virale delle cellule. Fang et al., in una lettera pubblicata su Lancet Respiratory Medicine, hanno ipotizzato che per tale meccanismo l’uso di questi farmaci potrebbe favorire un aumento del rischio di infezione.9 Come spesso accade, il dibattito scientifico, per quanto nelle fasi preliminari di discussione e senza nessuna conferma sperimentale, è stato enfatizzato e distorto nel dibattito pubblico, alimentato dalla diffusione attraverso i social media. Sebbene non ci siano prove di conseguenze dirette, comunicazioni di questo tipo possono compromettere la compliance alle terapie o indurre a sostituire il farmaco con altri, magari meno efficaci e meno sicuri. Per questo motivo le autorità sanitarie si sono affrettate a rassicurare e consigliare di non modificare la terapia in atto, se non secondo indicazione medica.10
Peculiari del contesto italiano sono invece i casi di umifenovir e favipiravir. In entrambi i casi a partire da un video si è diffusa attraverso i social media la fake news che la ridotta diffusione del COVID-19 in Russia e in Giappone rispetto all’Italia nel periodo marzo-aprile 2020 fosse attribuibile a umifenovir nel caso della Russia e a faviripavir nel caso del Giappone. In conseguenza di queste comunicazioni è possibile che si sia verificato un acquisto incontrollato su internet di questi antivirali, benché le evidenze specifiche al riguardo siano scarse. Tuttavia, l’autorità sanitaria italiana ha sentito il bisogno di mettere in guardia la popolazione contro l’acquisto di farmaci di qualità non ben definita e presumibilmente efficaci contro il COVID-19 su siti Web non autorizzati.11,12
In questo scenario complesso, la farmacovigilanza si è trovata e si trova ad affrontare diverse sfide che coinvolgono tutte le parti interessate. Anzitutto le istituzioni politiche, sanitarie e i produttori dovrebbero collaborare per stimolare e supportare la ricerca nella conduzione di studi che garantiscano prove scientifiche attendibili per i farmaci candidati nel trattamento di COVID-19. Un ruolo non marginale potrebbero averlo gli studi osservazionali real-world che correlano il trend di utilizzo dei farmaci con gli esiti clinici tramite la valutazione dei database sanitari. In questo contesto è fondamentale che i comitati etici, in sede di approvazione dei protocolli di studio, valutino il rapporto rischio-beneficio in relazione ai farmaci, alle indicazioni d’uso e ai pazienti.13,14,15 Inoltre, in situazioni come questa, la collaborazione tra i ricercatori dovrebbe essere incentivata per assicurare la qualità dei dati e limitare la dispersione delle prove con studi di bassa qualità, condotti su campioni ridotti di pazienti.16 Allo stesso modo le autorità sanitarie, oltre a fornire linee guida agli operatori sanitari per la gestione dei pazienti, devono essere critiche nel valutare la qualità dei risultati degli studi prima di prendere decisioni.
Un’altra sfida è l’implementazione dei sistemi di segnalazione spontanea delle reazioni avverse ai farmaci. Nelle situazioni in cui il profilo rischio-beneficio non è chiaro e l’automedicazione è una eventualità potenzialmente frequente, è fondamentale monitorare la sicurezza stimolando nei pazienti la segnalazione spontanea delle reazioni avverse. In questa direzione un forte sostegno potrebbe provenire dalle reti dei centri antiveleno e dai servizi di informazione sui farmaci che possono fornire consulenza professionale gratuita 24 ore su 24 e informazioni sulla gestione medica ai pazienti e agli operatori sanitari.
L’analisi del segnale è un’altra attività che deve considerare l’impatto dell’infodemia. Possiamo aspettarci un incremento delle segnalazioni per tutti i farmaci coinvolti nella comunicazione su COVID-19, e questo fattore dovrà essere tenuto in conto nelle future interpretazioni dei dati. Un tipo di studio che potrebbe valere la pena di esplorare è il rilevamento del segnale su internet o sui social media. Alcuni autori ne hanno ipotizzato l’utilità nella valutazione da parte del pubblico della percezione del rischio correlato ai farmaci. Nell’attuale scenario, considerando che i media potrebbero avere condizionato i comportamenti legati all’assunzione dei farmaci, è possibile che questo tipo di studi sia in grado di identificare abitudini pericolose tra gli utilizzatori di farmaci e supportare lo sviluppo di adeguate strategie di comunicazione per mitigare il rischio correlato.17
La pandemia e la conseguente infodemia hanno evidenziato quanto la comunicazione sui farmaci possa condizionare il comportamento della popolazione. Una delle sfide più difficili per la farmacovigilanza che va oltre la pandemia rimane quella della comunicazione del rischio. Le strategie di comunicazione basate su raccomandazioni sia scritte sia verbali che si appoggiano su numeri potrebbero avere un’efficacia ridotta, soprattutto in soggetti non abituati a leggere l’informazione scientifica.18 Al contrario, le fake news riescono a essere molto efficaci perché il linguaggio è semplice, utilizza esempi di vita quotidiana, molta grafica e poche parole e punta su un effetto empatico.19 Le stesse strategie empatiche potrebbero essere utilizzate per un’efficace comunicazione allo scopo d’incoraggiare abitudini corrette,20 per esempio attraverso la narrazione di storie di persone che hanno subìto conseguenze significative dall’uso sconsiderato dei farmaci, e magari utilizzando queste stesse persone come testimonial. Sicuramente gli operatori sanitari, nei quali i pazienti ripongono la massima fiducia, dovrebbero essere maggiormente coinvolti nelle campagne di comunicazione per l’uso corretto dei farmaci.
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Marco Tuccori, Emiliano Cappello, Giulia Valdiserra
Sezione Dipartimentale di Monitoraggio delle Reazioni Avverse ai Farmaci - Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana