I movimenti afinalistici della depressa Cristina
Cristina, 55 anni, non ha una vita facile. Da una quindicina d’anni soffre per una depressione che sembra poco sensibile alle tante terapie poste in atto, tanto da essere definita come farmaco resistente. Nell’ultimo periodo è stata a casa in malattia dal suo lavoro di impiegata e ha iniziato un trattamento di stimolazione elettrica transcranica, senza averne avuto per ora benefici.
Le giornate sembrano trascorre tutte uguali, finché non viene ricoverata in una casa di cura per sottoporsi al secondo ciclo di stimolazione elettrica transcranica. D’improvviso, senza particolari sintomi o segni premonitori, Cristina viene trovata dall’infermiera nella sua camera in stato confusionale, confabula, ha nistagmo e movimenti afinalistici dei quattro arti. E’ comparsa anche febbre. All’esame neurologico non ci sono deficit di forza. Il quadro clinico è particolarmente impressionante, tanto che la donna viene subito portata al Pronto soccorso del locale Policlinico.
La donna è trattata con numerosi farmaci per i suoi vari disturbi, in particolare sta assumendo: delorazepam e sertralina, oltre a betaistina dicloridrato, rosuvastatina, fenofibrato, macrogol, olmesartan medoxomil/amlodipina, pantoprazolo e biperidene cloroidrato.
I familiari subito giunti al Pronto soccorso riferiscono la recente sospensione di lurasidone, sostituito con ademetionina, e l’assunzione anche di trazodone la sera precedente la crisi che l’ha portata al Pronto soccorso. Inoltre segnalano che da circa un mese Cristina segue una dieta chetogenica.
La paziente si presenta tachicardica, normotesa, tachipnoica e febbrile e, viste le condizioni generali, viene trasferita immediatamente in Unità di terapia intensiva.
Agli esami di laboratorio eseguiti in urgenza emerge una spiccata neutrofilia, un netto incremento della creatininemia e delle CPK.
RX torace, ecografia addome e TC encefalo risultano negative per fatti acuti, mentre l’EEG mostra segni di sofferenza encefalica prevalente nell’emisfero sinistro.
Si decide di eseguire una rachicentesi: l’esame chimico-fisico del liquor risulta nella norma, ma vi è la presenza nel liquor di sequenze genomiche di HHV-6. Sulla base di questo dato la paziente viene trattata con ganciclovir, nonostante si propenda per la verosimile natura contaminante del rilievo.
Una TC toraco-addominale evidenziava un’area di consolidamento parenchimale polmonare, per cui viene impostata terapia antibiotica empirica con ceftriaxone e levofloxacina, che in pochi giorni porta a un miglioramento del quadro radiologico, con scomparsa della febbre.
In considerazione dell’insufficienza renale viene anche impostata una importante terapia idratante.
Considerati i dubbi segni di sofferenza encefalica all’EEG viene richiesta una risonanza magnetica cerebrale con mezzo di contrasto che non mostra lesioni focali o altre lesioni intracraniche che possano spiegare il quadro elettroencefalografico. Durante il ricovero si assiste a una progressiva anemizzazione con reticolociti entro i limiti di norma, aptoglobina non consumata, folati e vitamina B12 ai limiti inferiori, in un quadro interpretato come verosimile tossicità midollare da ganciclovir. I controlli ematochimici mostrano nelle settimane successive alla sospensione del farmaco un progressivo lento incremento dei valori di emoglobina.
Sempre nei giorni del ricovero compare una importante ipokaliemia non corretta dall’infusione endovena di circa 80 mmol/die. Anche la magnesiemia risulta estremamente bassa. Si procede pertanto alla supplementazione di magnesio con risoluzione di entrambe le disionie.
In tutto ciò la terapia antidepressiva che Cristina assumeva prima dell’arrivo in Pronto soccorso viene sospesa in via precauzionale, nel sospetto che possa avere avuto un ruolo nella sindrome presentata dalla paziente: il quadro di clonie, ipertermia, nistagmo e agitazione psichica risulta compatibile con una sindrome serotoninergica mentre la rabdomiolisi può, almeno in parte, essere riconducibile alla terapia con statina associata ai fibrati. Alla dimissione, una volta risolti i sintomi, l’umore di Cristina appare solo leggermente flesso, nonostante l’assenza della terapia antidepressiva.
Tanti sintomi un’unica causa?
Il caso di Cristina è un classico esempio di come numerosi effetti avversi da farmaci possano sommarsi in un quadro clinico complesso e di difficile interpretazione. Ci soffermeremo esclusivamente sulla sindrome serotoninergica. Essa è una reazione avversa a farmaci, potenzialmente pericolosa per la vita, secondaria a un’eccessiva attività serotoninergica a livello del sistema nervoso centrale e periferico.1
Non è una reazione farmacologica idiopatica, ma una conseguenza prevedibile dell’eccessiva azione agonista indotta dai farmaci a livello dei recettori del sistema nervoso centrale e dei recettori serotoninergici periferici.2,3 I farmaci maggiormente implicati sono gli antidepressivi, principalmente gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), essendo anche quelli maggiormente utilizzati.4
Viene usualmente descritta come una triade clinica composta da: cambiamenti dello stato mentale, iperattività autonomica e anomalie neuromuscolari (spesso clonie), tuttavia tale corteo sintomatologico non è sempre presente e ciò rende la diagnosi spesso difficile e la sindrome misconosciuta.5,6
I segni di eccesso di serotonina variano da tremore (clonie) e diarrea in casi lievi, a delirio, rigidità neuromuscolare e ipertermia in casi potenzialmente letali. Un grande pericolo è che i sintomi lievi possono essere facilmente trascurati, in particolare l’acatisia e l’ansia possono essere erroneamente attribuiti alla patologia di base del paziente. Tuttavia è proprio in questi casi che l’eventuale aggiunta di un farmaco con effetto serotoninergico o l’aumento della posologia dei farmaci già in uso può provocare un drammatico deterioramento clinico.1,6-8
Nel caso di Cristina alcuni fattori confondenti hanno causato un ritardo diagnostico: primi fra tutti il referto EEG e l’ipotesi diagnostica di encefalite virale, solo parzialmente corroborata dalla positività per HHV-6.
Una revisione della letteratura ha permesso di rilevare come la frequenza di alterazioni elettroencefalografiche in pazienti con sindrome serotoninergica sia circa del 29%, ma esse sono per lo più aspecifiche.9
Fondamentale per la risoluzione del caso è stata l’attenta anamnesi farmacologica che ha permesso di definire come l’interazione tra i farmaci assunti dalla paziente nei giorni antecedenti al ricovero abbia scatenato la comparsa della sindrome. In particolare si segnala la possibile interazione tra sertralina e trazodone, dato che entrambi inibiscono la ricaptazione della serotonina. Il trazodone inoltre possiede anche azione attivatrice sui recettori della serotonina. Pertanto l’associazione tra i due farmaci è controindicata.10
A questi probabilmente si è aggiunto l’effetto dell’ademetionina, un coenzima coinvolto nel trasferimento di gruppi metile che regola numerose reazioni biologiche tra cui la biosintesi di dopamina e serotonina e che pertanto potrebbe avere contribuito all’eccesso di serotonina alla base della comparsa della sindrome.11,12
Per quanto riguarda il lurasidone, sospeso dalla paziente 7 giorni prima della comparsa dei sintomi, è un antipsicotico di seconda generazione con una lunga emivita (circa 20-40 ore) e un ampio volume di distribuzione (6.000 l). Tali proprietà farmacocinetiche lo rendono suscettibile ad accumulo ed è possibile che esso fosse ancora presente in circolo nella paziente nonostante la sospensione. Essendo un farmaco di relativamente recente introduzione ci sono pochi dati di letteratura al riguardo. In una recente analisi dell’FDA Adverse Event Reporting System (FAERS) della Food and Drug Administration (FDA) emerge una correlazione statisticamente significativa tra la sindrome e l’uso del farmaco.13
Merita una citazione infine la dieta chetogenica che Cristina stava seguendo prima del ricovero; tale dieta si basa sul principio di eliminazione di tutti i carboidrati a favore di sole proteine e lipidi, per cui potrebbe avere alterato i livelli dei metaboliti di dopamina e serotonina. Tuttavia vi sono solo dati preliminari derivanti da trial condotti su modelli animali o su un piccolo numero di pazienti.14-16
In conclusione, il caso di Cristina richiama i medici a un’estrema cura nell’uso dei farmaci con attività serotoninergica centrale. Le interazioni e sommazioni di effetti devono essere evitate avendo una maggiore conoscenza delle proprietà farmacodinamiche e farmacocinetiche dei principi attivi utilizzati. È necessario avere grande cautela nell’introduzione o sostituzione degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e una grande attenzione nel riconoscimento precoce dei sintomi della sindrome serotoninergica.
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Alessia Olivato, Cristiano Fava, Denise Marcon
Dipartimento di Medicina, Università di Verona, Unità di Medicina Generale e Ipertensione AOUI - “Policlinico G.B. Rossi”, Verona