Due secoli di valutazione dei rischi da farmaci
La sicurezza dei farmaci, dall’arsenico al rosiglitazone, attraverso duecento anni di storia del New England Journal of Medicine
Il New England Journal of Medicine ha pubblicato una serie di articoli in occasione dei 200 anni di vita della rivista. Uno era focalizzato sulla valutazione dei rischi da farmaci attraverso due secoli di articoli del giornale.1 A scriverlo è stato chiamato Jerry Avorn, noto clinico della Harvard Clinical School e direttore della Divisione di farmacoepidemiologia e farmacoeconomia del Brigham and Women Hospital, entrambe a Boston.
Una ricetta fantasiosa
La lettura degli articoli del New England attraverso i secoli è molto istruttiva a partire dal primo numero della rivista (gennaio 1812), che contiene un articolo, Remarks on angina pectoris, nel quale John Warren descrive la terapia di un paziente anginoso, al quale era stato prescritto “di prendere oppio ed etere, o la gomma fetida; di fare pediluvi in acqua calda e, sotto il controllo di un medico, di essere salassato... il nitrato di argento era prescritto nella soluzione”. La prescrizione di tabacco chiudeva la ricetta. Come si vede, non c’era un approccio sistematico per determinare quali terapie fossero efficaci, con un accettabile livello di rischio, e quali fossero semplicemente tossiche.
Questa confusione è ben illustrata da un articolo di due anni dopo sull’arsenico, che sottolineava come “i benefici effetti del rimedio non sono evidenti finché talvolta il suo uso è stato interrotto”, un metodo perfetto, sottolinea Avorn, per confondere la valutazione di efficacia (in questo caso nulla), con gli effetti avversi. L’autore dell’articolo del 1814 descrive un paziente nel quale il trattamento con arsenico era stato interrotto a causa di eruzioni cutanee che sono la caratteristica della sua tossicità. Il dottor Kinglake, estensore dell’articolo, scriveva che “in questa situazione è naturale per il paziente negare al farmaco ogni effetto positivo, attribuendo il beneficio più all’interruzione che all’efficacia del medicamento”. In realtà, spiegava, l’arsenico aveva avuto un forte effetto stimolante che aveva impedito alla azione benefica di essere osservabile”. Questa “eccitazione da arsenico” era stata “confusa con una continuazione immodificata della malattia primitiva”. La raccomandazione del dottor Kinglake era perciò di continuare la terapia per almeno tre mesi, nonostante i segni e i sintomi di tossicità. Per fortuna, almeno il commento del New England, pubblicato sullo stesso numero della rivista, diceva saggiamente: “Non possiamo tacere la nostra apprensione che tali trattamenti possano costituire le fondamenta di un successivo danno irreparabile e che l’uso generalizzato in questa maniera del farmaco non debba essere raccomandato”.
Farmaco o non farmaco?
Nello stesso anno, un case report da Dublino sottolineava la difficoltà di determinare se una particolare sindrome fosse un effetto avverso o una nuova malattia non correlata con il farmaco o, più problematico, la conseguenza dell’interruzione precoce della terapia (ancora!). Il paziente, trattato con mercurio, aveva sviluppato una grave eruzione cutanea, febbre a 40°, tachicardia a 130 battiti/min, cefalea, nausea, convulsioni, vesciche che secernevano liquido, una desquamazione così grave che “larghi pezzi di cute si staccavano dalle mani, così interi da sembrare guanti”. Nonostante il titolo dell’articolo fosse Descrizione di una malattia prodotta dall’uso del mercurio e nonostante l’autore scrivesse che “la cura di questa malattia è molto semplice. Consiste, prima di tutto, nel rimuovere la causa scatenante e quindi i suoi effetti”, poi aggiungeva che “in qualche caso la continuazione della terapia con mercurio è appropriata”. Perché, sebbene questa sindrome devastante potrebbe essere causata “da un incauto uso di mercurio”, potrebbe anche “essere causata, in forma aggravata, da una troppo precoce interruzione della terapia”. Questa confusione nell’attribuire le sindromi causate da farmaci ad altre cause era frequente.
Una materia da gettare ai pesci
Per l’uso sistematico degli studi clinici randomizzati bisognerà aspettare altri 130 anni. Ma già alla fine del primo secolo di pubblicazioni, nel 1909, il decano della Harvard Medical School valutava saggiamente il rapporto rischi-benefici: “Io credo fermamente che se l’intera materia medica fosse gettata in fondo al mare, sarebbe il bene dell’umanità e il peggio per i pesci”.
La situazione, però, peggiorò ulteriormente all’inizio del 20° secolo, per la proliferazione delle medicine di marca, prodotte industrialmente, che divenne negli Stati Uniti uno scandalo nazionale. I produttori non erano obbligati a rendere pubblici i componenti dei propri preparati né a documentare sicurezza ed efficacia. Nel 1906 Wiley, che era a capo della commissione sul Pure Fod and Drugs Act, che costituì la base dell’FDA, scriveva che la sua commissione “desiderava realizzare la nuova legge con il minimo disturbo per gli affari e con i minimi inconvenienti per i produttori (di medicine) e i commercianti del paese”.
Il dramma della sulfanilamide
Ma nel 1937 la tragedia della preparazione della sulfanilamide in dietilene glicole, un antimicrobico che uccise più di 100 bambini, spinse l’opinione pubblica inferocita a richiedere che l’FDA obbligasse i produttori di farmaci a provare che non fossero tossici prima della commercializzazione. Accanto alla richiesta di maggiore potere per l’FDA sorgeva la richiesta di maggiore preparazione dei medici. Il dottor Grabfield, dell’Harvard Medical School, sottolineava che “i deficit nella conoscenza dei medici contribuivano a peggiorare il problema della sicurezza dei farmaci” e che l’insegnamento della farmacologia e della medicina preventiva “è carente in molte università. Dopo la laurea deve diventare un impegno per le autorità sanitarie prendere i medici sotto la loro giurisdizione, consci di queste mancanze riguardo alla terapia”. Sembrano i discorsi ascoltati in questi ultimi anni in innumerevoli convegni e congressi.
Gli Stati Uniti si salvarono dal disastro della talidomide, nel 1961, grazie a una attenta e scrupolosa farmacista dell’FDA, che impedì la registrazione del farmaco. Ma l’eco del disastro portò a una serie di riforme legislative che diedero all’FDA il potere di chiedere di dimostrare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci.
Le pagine su rofecoxib e rosiglitazone
Negli anni recenti il New England Journal of Medicine ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo della sicurezza dei farmaci, soprattutto con i casi del rofecoxib e del rosiglitazione. Non è qui il caso di ripercorrere le tappe della vicende di questi due farmaci, di cui Focus Farmacovigilanza si è occupato ampiamente (novembre 2004 - giugno 2010), ma è utile ricordare che nel primo caso la pubblicazione sul New England di due Expressions of concern riferentesi al modo col quale erano state date le informazioni di sicurezza dello studio VIGOR (2005) e alla omissione selettiva di dati sulle reazioni averse da parte dello sponsor dello studio (2006) – hanno avuto un grande peso nella valutazione da parte dell’opinione pubblica e dei governi sulla necessità di una maggiore attenzione ai problemi di sicurezza. L’obbligo della registrazione degli eventi avversi su clinicaltrials.gov è una conseguenza positiva della storia del rofecoxib.
La vicenda del rosiglitazone ha avuto anch’essa il suo peso: dopo la sua sospensione, documenti importanti dell’Institute of Medicine e del Governement Accountability Office si sono posti il problema di come un farmaco con un rischio doppio di infarto miocardico o ictus possa essere stato usato da più di 20 milioni di americani per oltre 5 anni senza che il rischio fosse chiaramente avvertito. Il dibattito che si è aperto ha sottolineato l’inadeguatezza della FDA e del solo sistema della segnalazione spontanea nel far fronte al problema della sicurezza dei farmaci. Da questa constatazione è partito il sistema sentinella, un sistema di sorveglianza in grado di valutare in tempo reale i database di oltre 100 milioni di americani, che è ora operativo.
In conclusione, 200 anni dopo che gli articoli del New England Journal of Medicine raccomandavano di trattare i pazienti anche durante gli effetti avversi di arsenico e mercurio, la valutazione del profilo di sicurezza dei farmaci è diventata molto più sofisticata. Rimane la necessità che la comunità scientifica e le agenzie regolatorie si battano continuamente e apertamente per la tutela della salute pubblica, dato che enormi interessi economici spingono verso un uso del farmaco più attento all’andamento dei titoli in borsa che ai problemi di sicurezza. La battaglia per una maggiore trasparenza delle informazioni, per una migliore attenzione alla definizione del profilo beneficio rischio dei farmaci non si vince una sola volta, ma richiede di essere continuamente combattuta.
- 1. N Engl J Med 2012;367:193-7. CDI #nnn#
Mauro Venegoni