Che cosa abbiamo imparato dalla ricerca clinica contro Ebola?
Quando, lo scorso ottobre, avevo scritto un editoriale per Focus Farmacovigilanza (Focus nov-dic 2014, pagina 1) sulla “eccezione Ebola” riguardo alle regole per la valutazione sulla sicurezza ed efficacia dei farmaci, non avrei mai immaginato che di lì a pochi giorni mi sarei trovato coinvolto personalmente nella questione, e così a fondo da esserne quasi completamente assorbito negli ultimi sei mesi. E ancor meno avrei immaginato di essere direttamente “vittima” del paradosso che in quell’articolo avevo prefigurato: “La sperimentazione di possibili rimedi promettenti è possibile solo in corso di un’epidemia, ma le difficoltà in corso di un’epidemia di Ebola sono tali da rendere quasi impossibile una sperimentazione randomizzata e controllata”.
Rilette ora, quelle parole mi sembrano sin troppo profetiche, alla luce della gran confusione sotto il cielo che si è scatenata nei mesi successivi.
Mi sono trovato in novembre a partire per la Sierra Leone, per aiutare Emergency a disegnare e allestire uno studio clinico sull’amiodarone, un farmaco antiaritmico, che ha mostrato una forte attività contro il virus Ebola in cellule umane coltivate in vitro.
Ora che l’epidemia è agli sgoccioli – ed è ormai chiaro che lo studio non si potrà realizzare, per la fortunata ragione che non ci sono più malati a sufficienza – vale la pena di fare un bilancio di come sono andate le cose e degli insegnamenti che se ne possono ricavare, facendo tesoro anche di un’esperienza di prima mano sul campo.
L’amiodarone è una vecchia conoscenza: lo usavamo in Unità coronarica negli anni settanta e continua a essere impiegato tutt’oggi da milioni di persone nel mondo. Una simile durata nel tempo è rara: una volta scaduto il brevetto, anche i principi attivi di maggior successo sono rapidamente sostituiti da altri, magari molto simili, ma dotati di qualche piccolo vantaggio, reale o presunto, sul precedente. Come l’acido acetilsalicilico, la metformina e pochi altri, l’amiodarone è un veterano dell’armamentario terapeutico, il cui profilo di sicurezza è noto nei minimi dettagli e molto rassicurante, soprattutto per trattamenti di breve durata.
La lunga permanenza nell’uso consente anche di conoscerne in profondità il meccanismo d’azione e quindi di immaginare altri possibili impieghi. Ricercatori tedeschi e italiani, tra cui il gruppo di Padova di Aldo Baritussio, da tempo sfruttavano la proprietà del farmaco di bloccare l’endocitosi cellulare per produrre un fenotipo simile a quello della rara malattia genetica di Niemann Pick. Da lì l’idea di provare l’amiodarone per bloccare il virus Ebola che, come altri filovirus, sfrutta proprio l’endocitosi come cavallo di Troia per l’ingresso nelle cellule e la replicazione.
I primi risultati in vitro1,2 sono molto incoraggianti e, proprio in base alle raccomandazioni espresse dall’OMS sulla eticità di usare “interventi non registrati che hanno mostrato risultati promettenti in laboratorio o in modelli animali, ma che non sono ancora stati valutati per la sicurezza e l’efficacia”, sembrava che dovesse essere una priorità provare anche l’amiodarone, che ha sui nuovi farmaci in lizza – come per esempio l’ormai celebre Zmapp, cocktail di anticorpi monoclonali umanizzati – anche il vantaggio di essere già arcivalutato per la sicurezza nell’uomo.
Si costituisce in pochi giorni un gruppo informale per lo studio dell’amiodarone contro Ebola. Ne fanno parte Emergency, che gestisce un Centro di trattamento in Sierra Leone, l’Istituto Spallanzani per la competenza virologica e l’IRCCS di Reggio Emilia per la metodologia e l’analisi dei dati. Si scrive un protocollo formale e lo si sottopone al vaglio dei comitati etici dei due istituti di ricerca, che approvano e apprezzano anche la decisione di prevedere un gruppo di controllo randomizzato. E’ una decisione sofferta, perché aggrava di molto la fattibilità del trial in pratica, ma si condivide l’idea che in mancanza di un confronto adeguato i risultati sarebbero inconcludenti.
A questo punto si iscrive il trial nel registro americano clinicaltrials.gov3 e in quello panafricano, e si richiede l’approvazione del Comitato etico della Sierra Leone.
A metà novembre, mentre l’epidemia infuriava con una letalità superiore al 60%, tutto era pronto per avviare uno studio con la mortalità come end point primario, compresa l’infusione controllata del farmaco, il necessario monitoraggio elettrocardiografico, gli esami di laboratorio e la raccolta e trasmissione dei dati.
Purtroppo le cose non sono andate come si sperava.
Il comitato etico dell’OMS nel suo documento aveva trascurato di approfondire i vantaggi del “riposizionamento” di vecchi farmaci nel contesto dell’epidemia.
Forse anche per effetto di quell’omissione, persino il gruppo di lavoro di farmacologici della stessa OMS, che doveva definire le priorità per la ricerca clinica contro Ebola, ha espresso per diversi mesi obiezioni incomprensibili sulla sicurezza dell’amiodarone nelle condizioni d’uso previste dal protocollo. Lo stesso panel ha fornito valutazioni sbagliate (per esempio confondendo i dati di dose/risposta dell’amiodarone con quelli di un antimalarico con un nome simile: l’amodiachina; oppure ignorando la farmacocinetica caratteristica di una molecola fortemente lipofila) al Comitato etico locale, che ha perciò continuato a rinviare l’approvazione dello studio sino a quando tutti gli equivoci e gli errori di valutazione si sono chiariti, a fine aprile 2015.
Troppo tardi ormai per avviare lo studio, perché nel frattempo fortunatamente i nuovi casi si erano talmente diradati da renderlo infattibile.
Lo studio clinico sull’amiodarone è stato il primo a essere registrato (e forse per questo, o per essere senza sponsor, è stato oggetto di un così infondato pregiudizio contrario?), ma non è l’unico a essere abortito in Africa occidentale: su 11 studi clinici registrati che avrebbero dovuto valutare possibili terapie contro Ebola pochi si sono avviati e nessuno probabilmente sarà comunque in grado di produrre dati trasferibili nella pratica per un’eventuale futura epidemia.4
L’autunno scorso erano stati stanziati fondi ingenti per la ricerca sui vaccini e sugli interventi curativi contro Ebola, grazie soprattutto a fondazioni private come la statunitense Bill Gates o la britannica Wellcome Trust, ma anche a istituzioni di ricerca pubbliche di vari paesi: uno sforzo ingente che, per quanto tardivo, avrebbe meritato di produrre qualche risultato concreto. Anche questo fallimento dovrebbe essere inscritto tra le lezioni apprese dall’epidemia, al pari degli altri correttamente individuati e ammessi in un coraggioso statement autocritico dell’OMS.5
L’errore principale è stato quello di avere rinunciato, in quasi tutti gli studi avviati, al confronto randomizzato, ritenuto non etico6, quando in condizioni di reale incertezza è vero il contrario. I trial senza un confronto comparabile raccolgono dati da cui non è possibile trarre alcuna conclusione e sono quindi uno spreco da tutti i punti di vista, anche morale. Una delle obiezioni avanzate contro gli studi randomizzati era l’impossibilità di ottenere un consenso realmente informato. La difficoltà è reale, anche in contesti meno drammatici e più sviluppati, ma non riguarda solo gli studi randomizzati.
Qualsiasi intervento, sperimentale e non, individuale o collettivo, nel corso di un evento tragico come l’epidemia di Ebola richiederebbe uno sforzo straordinario d’informazione e coinvolgimento.
Anche in queste circostanze il dialogo, l’ascolto, la comunicazione, la mobilitazione delle persone e delle comunità sono la chiave di volta non solo del successo pratico, ma del più generale dovere di essere umani.
- J Antimicrob Chemother 2014;69:2123-31.CDI
- Salata et al, Pathogens Disease 2015, accettato per la pubblicazione
- https://clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT02307591?term=ebola+virus+disease...
- Lancet Infect Disease 2015;DOI:10.1016/S1473-3099(15)70106-4.
- http://www.who.int/csr/disease/ebola/joint-statement-ebola/en/
- Lancet 2015; 384:1423-4. CDI
Zadig