Approvazione accelerata degli antitumorali: una scelta sicura?
Tutti gli oncologi sanno con quanta ansia i pazienti neoplastici attendano la disponibilità nella pratica clinica di farmaci che abbiano dato risultati positivi nelle sperimentazioni registrative. E ogni anno, di ritorno dal meeting annuale dell’ASCO (American Society of Clinical Oncology), ogni specialista vorrebbe poter utilizzare da subito quel farmaco o quella modalità terapeutica che sono saliti alla ribalta nel più importante congresso annuale, dimostrando di poter migliorare significativamente le possibilità di trattamento di malattie mortali. D’altra parte, non mancano certamente esempi di farmaci immessi in commercio senza attendibili prove di efficacia e che si sono poi dimostrati privi di significativa attività terapeutica se non addirittura inaccettabilmente tossici.
Negli Stati Uniti esiste fin dal 1992 una via accelerata per l’approvazione dei medicinali (“accelerated approval pathway”) riservata a farmaci dotati di “un’ attività non precedentemente dimostrata nei tumori”: essa permette un accesso al mercato basato sulla valutazione di esiti surrogati1 ed è, almeno in teoria, a carattere condizionato in quanto esige la conduzione di studi confirmatori post approvazione che ne valutino il reale impatto (in termini di rapporto rischio/beneficio) nella pratica clinica quotidiana. Qual è la situazione dopo oltre un quarto di secolo?
Bisogna correggere la rotta
Alcuni articoli2,3,4 mettono in discussione tutta la procedura e ne sottolineano i potenziali pericoli, richiamando la necessità di correggere la rotta5. Eccone le ragioni:
- la discutibile scelta degli esiti surrogati: in particolare, la risposta obiettiva potrebbe correlare poco con la sopravvivenza globale, come documentato anche di recente da una revisione sistematica4 che evidenzia come fino al 90% degli studi potrebbero dimostrare una bassa correlazione tra risposta e sopravvivenza
- la carenza di studi confermatori post approvazione: secondo una recente analisi3 non più del 20% delle indicazioni terapeutiche approvate andrebbero incontro a un meticoloso scrutinio post marketing che utilizzi gli stessi esiti riportati negli studi registrativi, mentre un altro 21% impiega metodologie differenti e quindi rischia di non portare a risultati attendibili. Degli altri poco si sa, se non che in un quarto dei casi gli studi confermatori non appaiono avviati o sono a lungo in corso o non ne vengono riportati i risultati
- casi come quello del bevacizumab nel glioblastoma in progressione dopo la terapia di prima linea: mentre lo studio registrativo aveva visto una netta superiorità in termini di risposte obiettive del braccio lomustina più farmaco sperimentale nei confronti dello standard con lomustina da sola, lo studio confermatorio su oltre 400 pazienti non ha potuto evidenziare alcun vantaggio per la combinazione in termini di esiti strategici inclusa la sopravvivenza globale e ha dovuto registrare un raddoppio della tossicità. Ciononostante, l’FDA ha approvato il bevacizumab in questa indicazione...
La limitata percentuale di studi confermatori che contraddicono i risultati delle sperimentazioni registrative non rappresenta di per sé una prova di validità della metodologia adottata dalla FDA, in quanto troppo spesso viene dato ancora spazio a esiti surrogati, con il rischio di mantenere la disponibilità in commercio di farmaci caratterizzati da dubbia efficacia e sicurezza e da rilevanti costi per le coperture assicurative, pubbliche e private, quando non addirittura per il paziente. Bisognerebbe quindi in realtà disegnare studi confermatori che utilizzino esiti (tipicamente la sopravvivenza globale) differenti da quelli degli studi registrativi e che siano più prossimi alla realtà clinica e ai bisogni dei pazienti. Tali studi dovrebbero essere condotti tempestivamente, per superare quella intollerabile quota di ricerche “lost in translation” di cui si è detto. E soprattutto va data la massima considerazione al tema della sicurezza, pronti a ritirare l’approvazione di un farmaco qualora emergano prove di inaccettabile tossicità.
Un appello fuori luogo?
Questo appello a un maggior rigore potrebbe sembrare fuori luogo in un’epoca nella quale gli aggettivi superlativi nella descrizione degli effetti positivi delle terapie antitumorali abbondano, non raramente a sproposito6, e nella quale vi è una diffusa sensazione che i trattamenti mirati a target molecolari e soprattutto l’immunoterapia riescano a cronicizzare la gran parte delle neoplasie metastatiche. In realtà, anche nel settore degli inibitori dei checkpoint immuni l’approvazione accelerata ha prodotto non pochi guasti7, non dimenticandoci che le varie multinazionali hanno prodotto almeno 5 farmaci molto simili in questa classe e che ciascuna tende a occupare spazi di mercato attraverso la conduzione di studi registrativi con limitate differenze tra loro, così da giustificare il ruolo pervasivo di tutti questi pur rivoluzionari agenti terapeutici.
Passando al nostro Paese, rischiamo spesso di cadere nell’eccesso opposto e di dover fare i conti con una sorta di “approvazione rallentata dei farmaci antitumorali”, nella quale rientrano anche prodotti realmente innovativi e dei quali vi è un disperato bisogno da parte di segmenti limitati di pazienti, ma per i quali vi è una elevatissima probabilità di risposta per trattamenti rivolti a un ben definito bersaglio molecolare: pensiamo per esempio ai carcinomi metastatici del colon-retto che presentino instabilità dei microsatelliti e per i quali esiste una marcata attività dei check-point inibitori. In questo caso, l’AIFA si è attestata su una linea di poco comprensibile rigidità, negando la rimborsabilità, mentre molte altre volte semplicemente l’Agenzia ritarda a esprimersi, rendendo difficilissimo il compito degli oncologi che devono affrontare ogni giorno la disperazione dei pazienti e dei loro familiari, alla ovvia ricerca del miglior trattamento per la loro malattia. Se questo viene considerato un modo per risparmiare sulla spesa farmaceutica… bene, non è certamente il più etico e nemmeno il più intelligente. Ciò che accomuna l’eccessiva accelerazione e l’inaccettabile rallentamento nella registrazione dei farmaci è la mancanza di fiducia delle autorità sanitarie nella capacità professionale e scientifica degli oncologi, perfettamente in grado di disegnare e di condurre studi indipendenti (quindi, con esiti clinicamente significativi) che confermino (o meno) i dati delle sperimentazioni registrative e che consentano un sollecito accesso a farmaci realmente innovativi. La battaglia per una ricerca clinica indipendente, in larga parte imperniata sull’attività dei gruppi cooperativi di ricerca oncologica, è in pieno svolgimento e rappresenta l’interesse primario dei nostri pazienti, oltre che la ragion d’essere di ogni oncologo degno di questo nome.
Vedremo come andrà a finire: noi siamo qui, pronti al confronto.
- Blumenthal G, Kluetz P, et al. Oncology drug approvals: evaluating endpoints and evidence in an era of breakthrough therapies. Oncologist 2017;22:762-7. CDI
- Chen E, Raghunathan V, et al. An overview of cancer drugs approved by the US Food and Drug administration based on the surrogate endpoint of response rate. JAMA Intern Med 2019;179:915-21. CDI
- Gyawali B, Hey S, et al. Assessment of the clinical benefit of cancer drugs receiving accelerated approval. JAMA Intern Med 2019;179:906-13. CDI
- Haslam A, Hey S, et al. A systematic review of trial-level meta-analyses measuring the strength of association between surrogate endpoints and overall survival in oncology. Eur J Cancer 2019;106:196-211. CDI
- Di Magno S, Glickman A, et al. Accelerated approval of cancer drugs – Righting the ship of the US Food and Drug Administration. JAMA Intern Med 2019;179:922-3. CDI
- Abola M, Prasad V. The use of superlatives in cancer research. JAMA Oncology 2016;2:139-41. CDI
- Gill J, Prasad V. A reality check of the accelerated approval of immune-checkpoint inhibitors. Nature Rev Clin Oncol 2019;16:656-8. CDI
Roberto Labianca
Direttore DIPO (Dipartimento Interaziendale Provinciale di Oncologia), Bergamo
Presidente GISCAD (Gruppo Italiano per lo Studio dei Carcinomi dell’Apparato Digerente)